Hush Now.

Harry | 1° Settembre

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    Anya Skylee StarkovI swear on my life that I've been a good girl.


    Il mio mondo aveva preso a sgretolarsi sotto ai miei piedi ed io ancora non lo sapevo. Quando aveva avuto inizio il tutto? Se mi sforzavo di pensarci sapevo esattamente quando tutto aveva cominciato a prendere una piega così inaspettata da far perdere le redini della situazione persino a me. Era stato qualche mese prima quando, durante il periodo natalizio che come di consueto stavo passando in Russia, da mio padre, qualcuno aveva rotto una finestra e si era scagliato prima su mio padre e poi, venendo abilmente respinto con la sola forza bruta, su di me, certo che con una sorta di ostaggio fra le mani non avrebbe dovuto temere per la sua vita. E invece... invece avrebbe fatto meglio a temere eccome. Era successo tutto molto in fretta, un secondo prima l'uomo che mi stava alle spalle mi aveva sotto tiro e mi premeva sulla pelle nuda della gola la sua bacchetta appuntita che pareva quasi fremere per l'eccitazione mentre, con voce fredda e maligna, il suo proprietario minacciava mio padre dicendo che avrebbe fatto prima fuori me e poi, lentamente, lui, ma il secondo dopo il corpo disteso sul pavimento non era il mio, bensì quello del mio aggressore che senza possibilità alcuna di evitare il lampo di luce verde acceso che gli era stato lanciato addosso con una precisione spaventosa, era crollato a terra senza nemmeno il tempo di esalare il suo ultimo respiro. Avevo urlato di terrore e per la prima volta non avevo provato conforto nel venir abbracciata dall'uomo che più di tutti amavo nella mia vita. Chi era quella persona che senza nemmeno scomporsi aveva privato un uomo della sua vita? Chi era? Non lo sapevo ma ero certa non potesse trattarsi di mio padre, non di quello stesso padre che rideva da sempre alle mie battutacce o che ad ogni scoccare della mezzanotte il venticinque di dicembre mi porgeva un pacchetto regalo sempre un po' più piccolo, ma sempre più prezioso. Quello precedente mi aveva regalato una collanina in grado di riportarmi sempre a casa da lui al bisogno, ma quello di quell'anno non avrei mai scoperto quale sarebbe stato. L'abbraccio durò poco meno di un minuto e prima ancora che io riuscissi a tempestarlo di domande come ero solita fare ogni qual volta che mi sentivo particolarmente ansiosa o spaventata, egli si diresse a grandi passi verso il piano interrato di casa dove si celava il suo personale laboratorio pozionistico che tanto adoravo e quando risalì gli vidi fra le mani una boccetta color cremesi il cui contenuto fece scivolare dentro la bocca del corpo esanime del uomo disteso sul pavimento sollevandogli leggermente la testa. «Papa, cosa stai facendo?» Domandai mischiando Russo e Inglese per la fretta di comporre la frase.«Tesoro mio, non dirai a nessuno quanto successo questa sera, intesi?» E dire cosa? Nemmeno lo avevo capito ciò che era accaduto, come avrei potuto allora dirlo ad anima viva? Poi giunse la spiegazione. Quell'orribile e surreale spiegazione che fece crollare tutto il mio mondo, strappandomi ogni convinzione che fino a quel momento avevo su di mio padre. Lo avevo sempre ritenuto un brav'uomo, il mio personalissimo eroe, il pozionista di successo che da solo aveva creato un impero fruttuoso e soddisfacente e invece ora dovevo fare i conti con il lato oscuro di tale impero. Dovevo vedermela con la consapevolezza che non tutte le pozioni che smerciava erano pozioni in grado di aiutare il prossimo, alcune facevano del male, tanto male e in modi inimmaginabili, altre garantivano invece una scorciatoia non indifferente alle difficoltà della vita e da quel momento in avanti sulla carta sarebbe risultato tutto mio. Non ero pronta a tale responsabilità, c'era chi al posto mio si sarebbe occupato di ogni cosa, ma non ero pronta ugualmente, soprattutto non ero pronta a dover fingere dinnanzi il mondo intero che il mio adorato padre mi avesse lasciato per sempre quella stessa sera.
    Il corpo ormai freddo del malvivente aveva assunto in tutto e per tutto l'aspetto di mio padre quando le autorità magiche competenti raggiunsero la casa dispera fra le fredde lande Russe in prossimità di un laghetto di nostra proprietà. Mi venne un conato di vomito nel vedere quel viso tanto famigliare appiccicato su quello senza vita di uno sconosciuto senza più aria nei polmoni e mi ci volle un considerevole sforzo per non rimettere sulle scarpe dei medimaghi presenti nella stanza. Non c'era più nulla da fare, mi dissero poggiandomi una mano sulla spalla che venne subito smossa da un brivido freddo che raggiunse la spina dorsale. Non c'era più nulla da fare. Era stato un orribile incidente. Un esperimento pozionistico finito male. Questa era divenuta la versione ufficiale e più lo ripetevo e più mi sentivo una meschina bugiarda. Stavo mentendo per una buona causa. Lo stavo facendo per lui e nonostante quanto appreso quella notte era pur sempre il mio amato padre, non avrei mai potuto fare nulla per nuocergli, non dopo che era stato l'unico porto sicuro dove ormeggiare ogni qual volta che diventava un peso vivere.
    Il natale quell'anno lo avevo infine passato in Francia con mia madre, il suo compagno e quella che era una sorta di sorella solo per metà. Non era stato affatto gioioso come i Natali ai quali ero abituata e l'unica parvenza di calore mi era stata data dal compagno di mia madre, che, come mai prima di quel momento, aveva iniziato a starmi accanto in un modo che non avrei definito paterno ma che non sapevo bene come altro etichettare. Aveva cercato di lenire le ferite che si supponeva avessi ora sparpagliate dentro al petto, ma ogni lacrima che rigava il mio viso mi faceva sentire una vera impostora. Tale vicinanza parve non piacere per nulla a mia madre che invece che starmi vicina, non che ci avessi sperato poi troppo conoscendola, parve porre ulteriore distanza fra noi e quando ormai le vacanze erano terminate e l'anno scolastico stava per giungere al termine mi informò che da quello seguente avrei frequentato una nuova scuola di magia, quella di Hogwarts, perché lei e il suo compagno sarebbero dovuti partire per questioni lavorative che li avrebbero fatti rimanere lontani da casa per molto tempo ed essendo i Barnes gli unici parenti rimasti ai quali spedirmi per posta tipo pacco gigante, sarebbe stato più comodo per tutti se io avessi terminato gli studi il più vicino possibile alla loro dimora. Avevo accettato. Che altro avrei potuto fare? Niente di niente, questa era la verità. Se mia madre ordinava io eseguivo gli ordini, se mia madre voleva qualcosa io dovevo darglielo, se pretendeva che io raggiungessi un nuovo stadio di perfezione ancora sconosciuto al genere umano in chissà quale campo, io lo raggiungevo e nel mentre, l'unica veramente libera di poter vivere la sua vita era quella non maga di mia sorella. La pecora nera della famiglia che però aveva così ottenuto la tanta agognata libertà che io da sempre bramavo. La odiavo e invidiavo al tempo stesso per tale motivo, perché se solo lei fosse stata un po' più perfetta io non avrei dovuto esserlo per entrambe, ma ovviamente non erano andate così le cose e quella che si era ritrovata per l'ennesima estate a casa dei cugini di mia madre sopportando una lezione di galateo dopo l'altra e un corso intensivo di incantesimi dalla difficoltà inimmaginabile, ero stata ovviamente io e incredibile ma vero l'assenza di quello che avevo sempre considerato non più di un fastidioso insetto nato per rendere la mia permanenza in quei di Londra un'esperienza orribile, si era fatta decisamente sentire quell'anno. Avevo passato tutte le giornate praticamente da sola se si toglievano le varie comparsate dei miei insegnanti privati e il massimo delle interazioni sociali erano stati imbarazzanti scambi di saliere con il maggiore dei Barnes durante le cene di famiglia, mentre i due più piccoli della cerchia si fissavano con sguardo complice e cominciavano a parlottare fra di loro mentre l'imbarazzo fra me e il maggiore cresceva sempre più. Perché dovevano essere tutti così dannatamente strani in quella famiglia? Non me lo spiegavo, ma ognuno a modo loro aveva qualcosa di decisamente sbagliato a smuovergli le espressioni facciali o a decretarne i movimenti e forse era proprio per quel motivo che nonostante le molteplici estati passate nella loro tenuta non avevo mai realmente legato con nessuno di loro, fatta eccezione forse per il secondogenito, che se anche il litigare e l'inveirsi contro poteva essere considerato un legame, era sicuramente l'unico con il quale ne avevo stretto uno.
    Fu durante l'ultima cena prima della partenza per il castello di Hogwarts che seppi fosse tornato a casa da ovunque era stato durante quella lunga estate, ma di lui alla lunga tavolata non si ebbe traccia e come al solito la massima interazione che ebbi, ormai da me considerata una sorta di strano rito imbarazzante, fu il passaggio di quella dannatissima saliera da parte del maggiore dei fratelli. Che diamine di problemi aveva col sale? Nemmeno glielo avevo più chiesto nelle ultime settimane, era successo solo un paio di volte e da allora pareva premurarsi che accanto al mio posto ci fosse sempre una saliera pronta all'uso. Lo ringraziai con un sorriso tirato e innaturale sul volto aggiungendo un po di sale alla pietanza sotto al mio naso certa che così sarebbe divenuta per me troppo salata, ma ero troppo ben educata per far finta di nulla e vanificare i suoi sforzi, se così si potevano chiamare, nell'agevolarmi durante i pasti. Tirai un sospiro di sollievo quando la cena si concluse e senza intrattenermi oltre sparii nei miei alloggi per terminare di preparare i miei bagagli e mettermi a letto a un orario decente per potermi svegliare riposata per l'indomani, certa però a malincuore, che di notti tranquille durante le quali non mi svegliavo di soprassalto per un incubo fin troppo lucido, ne avevo sempre passate ben poche.
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    Suonò la sveglia e mi issai dal materasso ancora assonnata facendo uno sbadiglio talmente ampio e sgraziato da far impallidire un comunissimo scaricatore di porto babbano, ero una signorina per bene solo quando ero costretta ad esserlo, ma quando nessuno mi guardava beh, potevo finalmente essere un po' me stessa. Mi vestii con abiti leggeri dopo essermi fatta una doccia rinfrescante, non era particolarmente caldo quel giorno in Inghilterra ma per chi come me era abituato a temperature decisamente più rigide quella si sarebbe potuta tranquillamente definire una calda giornata di fine estate. Scesi gli svariati piani che mi dividevano dal cortile della tenuta col baule svolazzante al seguito e quando mi ritrovai fuori dai portoni di ingresso non potei fare a meno di chiedermi se non mi fossi sbagliata con l'orario di ritrovo, perché ad aspettarmi non vi era rimasto nessuno se non Alaric, il Barnes più grande, con una mano tesa per aiutarmi a salire sul mezzo che ci avrebbe portato a destinazione. Non ebbi il coraggio di chiedergli nulla e mi limitai imbarazzata a fissare il paesaggio che mutava fuori dal finestrino, che fosse stato un errore mio o meno non lo avrei sicuramente chiesto a lui. Fu solo dopo una mezz'oretta scarsa che il ragazzo ruppe il silenzio con un paio di convenevoli ai quali risposi rigida e a disagio, non ero brava a socializzare ma diamine, avevo trovato qualcuno che pareva essere altrettanto negato quanto me. Mi passai con fare discreto una mano sul viso per distendere i nervi e non scoppiare a ridere nervosamente come una sguaiata quale non potevo proprio mostrarmi davanti a lui e quando finalmente giungemmo a destinazione scomparii alla velocità della luce verso una carrozza qualunque del treno salutandolo e augurandogli buon viaggio. Mi ci sarebbero servite tutte quante le ore necessarie ad arrivare a Hogwarts per far tornare il mio indicatore di socialità a dei parametri normali, ma fortunatamente, almeno su quello, il fato parve agevolarmi facendomi trovare uno scompartimento del treno ancora vuoto dentro il quale rintanarmi per poter leggere in solitaria per tutta la durata del viaggio e in fin dei conti, mi dissi, sarebbe potuta andare decisamente peggio, perchè mi sarei potuta ritrovare Alaric affianco per tutto il viaggio verso il castello e al solo pensiero freddi brividi di disagio mi percorrevano tutta la lunghezza della schiena.


    Edited by Cielo Stellato. - 10/10/2023, 14:51
     
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    Harry Christopher BarnesTAKE A LOOK AT ME 'CAUSE I'M THE HOTTEST MOTHERF*CKER THAT YOU'VE EVER SEEN



    Un fruscio brusco mi fece sussultare: con la testa ancora sul cuscino, lanciai uno sguardo all’indietro per mettere a fuoco le sagome capovolte di un albero le quali foglie ora danzavano; uno sguaiato gracchiare di gruppo tradiva l’identità di quelle tre piccole, misteriose ombre grigie che stavano sfrecciando con decisione davanti alla finestra alle mie spalle, una fessura sul mondo che divideva il sonno dei proprietari solo temporanei di quel letto a castello; era per quella suggestiva vista sulle montagne al chiaro di luna che avevo deciso di prendere il letto inferiore, e non quello superiore, che non aveva il “difetto” di lasciarsi inondare di luce nello stesso momento in cui le trombe iniziavano a suonare, con quella fastidiosa - ma viva - sinergia tipica solo di posti come quello.
    Dei gran posti del cazzo.
    11:43 PM. Tornai a fissare il mio lussuoso orologio da taschino che, con l’aria scocciata d’impazienza di chi nascondeva un’euforia febbricitante, mi facevo penzolare davanti al volto, il braccio opposto piegato dietro la testa. Mancava poco, molto poco.
    Avevo pensato a tutto. Cioè, in realtà non avevo pensato praticamente a un cazzo, ma sono quelle decisioni prese d’impulso a farti credere di aver avuto il piano meglio architettato del mondo quando in realtà è una gran stronzata; ma il motivo del “piano” non era altro che fare un’uscita col botto, riprendendo il pieno controllo delle mie azioni - della mia vita, in poche parole - con la stessa urgenza ed eccitazione con le quali si sfilano le mutandine da un bel culetto. No, scherzo: in realtà era persino meglio.
    11:49 PM. Il “piano”, dunque, era semplice quanto soddisfacente: mettere tutti in allarme; possibilmente, un bell’infarto di gruppo. Soprattutto ai “piani alti”; in alternativa, un bell’esaurimento nervoso con simpatiche conseguenze neurologiche proprio ai suddetti. Che bastardo, sì, lo so, ma vogliamo parlare di chi ha avuto la bella idea di rinchiudermi qui dentro dall’inizio di Aprile? No, dico, questo cosa vi pare? Succo di zucca? Se pensate poi che io non l’abbia neppure capito, che cazzo sia successo in quella merda di torre dell’orologio, eppure mi sia stata addossata la colpa di tutto perché, ovviamente, è sempre colpa del Barnes secondogenito. Comodo, no? Non solo mi sono beccato un limone totalmente sgradito - praticamente ai limiti della perversione umana - ma che poi ho pure rischiato di vedermi aperto il cranio quando il tetto della torre è iniziato a crollare e, meno di dodici ore dopo, magicamente, ero stato sospeso da quella fottuta scuola. Proprio quando stavo per diplomarmi! Praticamente una tragedia.
    La ciliegina, però, era stato rinchiudermi in un posto dove non solo non funziona il WiConnect, non solo non c’è uno straccio di figa, non solo si mangia di merda ed è privo del benché minimo agio ma, più di ogni altra cosa, sono stato marchiato come un vitello da macello con un simbolo intriso di una magia che mi impediva di mettere un passo fuori dal perimetro appartenente alla fortezza pena il braccio che inizia ad auto dilaniarsi mentre tutto il corpo magi-militare si accorge della tua fuga e accorre con delle fruste infuocate pronto a darti il resto. Non ho provato tutto questo sulla mia pelle, ovviamente, ma ho costretto un coglioncello a farlo al posto mio, in cambio di un bel po’ di grana. Poi, però, la grana non me l’ha più chiesta: ha passato un mese intero a dondolare sul posto con lo sguardo perso nel vuoto, finché non sono venuti a portarselo via chissà dove. Beh, ‘sti cazzi, la sua utilissima intraprendenza è risultata persino gratuita. Da quel momento, di uscire di qui, non ci ho neppure pensato, ma ho sognato tanto l’ultima notte di Agosto quando, scattata la mezzanotte ed entrati così ufficialmente a Settembre, il marchio avrebbe iniziato a riassorbirsi automaticamente ma, innanzi tutto, avrebbe perso tutta la sua efficacia.
    11:56 PM. Mi alzai, facendo meno rumore possibile, e percorsi quel breve tragitto dal letto al corridoio; feci capolino oltre la soglia della porta che avevo lasciato socchiusa, per assicurarmi che il compagno addetto a stare di vedetta, quel giorno, fosse effettivamente addormentato; il fedele elfo aveva fatto un buon lavoro, avvelenandolo come gli avevo chiesto… STO SCHERZANDO! Lo aveva solo addormentato.
    Almeno credo.
    – Sblinx, Sblinx! sussurrai apparentemente rivolto al nulla, – Sbrigati, orecchie a pipistrello, è ora! –
    L’elfo apparve in mezzo al corridoio, sempre impeccabile e così adorabilmente devoto, con la mia affilata Firebolt in mano. Il nanerottolo piegò per metà un ginocchio e, a testa bassa ed entrambe le braccia tese, me la porse. Insieme alla mia becchetta.
    Le arraffai entrambe con fare possessivo e, con passo rapido ma a cadenza decisa, andai a spalancare la finestra del corridoio.
    12:00 AM: era ora.
    Poggiai una scarpa sul bordo della finestra, ghignando. – Vai Sblinx, ci vediamo di sotto. –
    – Sì, padrone. – L’elfo schioccò le dita pronto a scomparire, mentre io iniziavo a far turbinare la bacchetta sopra la mia testa, dalla cui punta veniva rilasciato un fumo che avrebbe, con semplicità quasi imbarazzante, causato il caos.
    Tutte le camere da letto dell’edificio erano state, infatti, disseminate di una sostanza inodore nell’aria proveniente da una magica candela accesa e poi nascosta - acquistate dall’elfo in un simpatico negozio di scherzi dei maghi bulgaro, che ha poi suddiviso personalmente - le quali particelle, giunte a contatto col più banale fumo, avrebbero causato un’infinità di scintille blu, che avrebbero scatenato un vero e proprio incendio dilagante in grado di farti percepire un forte calore e fastidio alla pelle e che ti avrebbe anche un po’ soffocato, ma senza distruggere ogni cosa al proprio passaggio come farebbero delle rosse fiamme comuni.
    Purtroppo.
    Mi appollaiai sul tetto, l’adorata scopa al mio fianco, in attesa dell’allarme automatico che avrebbe portato tutte le guardie all’esterno a cercar di spegnere l’incendio in corso. Spoiler: le fiamme non si sarebbero spente prima di trenta minuti buoni. O almeno così c’era scritto sul foglietto delle istruzioni.

    Ciò che avevo preveduto accadde. Il ghigno sul mio volto era la dimostrazione palese di come bene mi sentissi dopo così tanti mesi di pesanti regole, punizioni fisiche e innumerevoli privazioni. Dovetti fare solamente una cosa, prima di andarmene, come in preda al prurito di un bisogno viscerale: dar fuoco alla fottuta bandiera che issavano ogni fottuta mattina e alla quale pregavano come fosse la loro fottuta divinità - in quella fottuta lingua di merda, per giunta.
    Sarebbe stata cenere quando l’avrebbero trovata, presi com’erano dal non capire neppure che genere di stregoneria fosse.
    Solo un attimo dopo le orecchie si tappavano dal forte vento, mentre abiti e chioma ribelle sbatacchiavano al turbinio di vento che lasciavo al mio passaggio, talmente rapido era il mio volo.
    La fortezza, dall’alto, pareva solo una grossa chiazza blu.

    Le strade di Richmond Upon Thames non mi erano sembrate mai così belle e accoglienti come quella notte. Erano appena le due quando, superando l’albergo e attraversando stancamente il giardino d’ingresso del maniero di famiglia, mi facevo accompagnare dall’elfo nelle mie stanze, dove mi avrebbe scippato le scarpe mentre mi gettavo a letto sfinito; si sarebbe assicurato che fossi ben coperto e che le mie valigie fossero pronte per il giorno dopo, prevedendo la mia stanchezza e il fatto che mi sarei certamente alzato più tardi del necessario.

    – Ma… era qui! – cinguettò una vocina a me familiare.
    – Ne ero sicuro, cazzo – sghignazzò l’altro.
    – Ma quando è arrivato? –
    – Cazzo ne so. Ma non sarebbe rimasto un secondo di più. Pare in coma –
    – Ma la smetti di dire “cazzo” tutto il tempo? –
    – Sei gelosa che io lo abbia? –
    Vidi la giovanissima Deva scuotere la testa, mentre mi sforzavo pigramente di aprire un occhio attraverso il mare di cuscini, contro i quali sorrisi.
    – Direi che dobbiamo svegliarlo – incalzò.
    Fallo tu, ha dormito vestito. Quello mi mangia. –
    – Ma finiscila! –
    – Facciamo che vi aspetto in carrozza, sorellin- un cuscino lo colpì in pieno viso, facendogli volare la montatura scura da sopra la testa.
    – Harry, che CAZZO! Tyler andò a recuperare la sua montatura. Rotta.
    Deva pareva sollevata. – Harry, erano venuti a prenderti alle sei alla passaporta, ma tu non c’eri! –
    – Che occhio, bambolina – feci un mezzo sorriso con aria drogata, sbucando tra le lenzuola.
    – Non scherzare. La prima carrozza è già andata, con dentro Kyle e tua cugina. –
    – Quanto impazienti quelli, eh… – mi misi a sedere sul letto, massaggiandomi mezza faccia senza essere in grado neanche di ricordarmi il mio nome automaticamente, se solo non me lo stessero ricordando da dieci minuti.
    Deva fece una breve pausa. – Beh… non proprio. Ora sbrigati e vieni giù, guarda che è tardissimo e l’Espresso non aspetta certo il tuo regale deretano. Venti minuti al massimo!
    La vidi sparire. Sospirai. Mi decisi ad alzarmi.
    Tutto ciò che feci fu lavarmi e vestirmi, avendo già ordinato all’elfo di pensare a tutto e, in effetti, i grossi bagagli erano già pronti all’ingresso della porta della mia camera. In Bulgaria non mi era stato permesso di portarmi un bel nulla, quindi diciamo che il grosso lo avevo fatto mesi prima.
    Mi disseminai semplicemente il collo di colonia e, con ben poca voglia a farmi da padrone, mi annodai la cravatta in modo per nulla ordinato.
    Tutto, nella mia aria, quel giorno, lasciava trasparire un solo messaggio: ‘Sti cazzi. Ma di brutto. Con lo sguardo c’ero e non c’ero, con la mente ancora meno.

    – In carrozza, giovani! – mi intimò frettoloso il cocchiere. Perché in realtà gli altri due erano già seduti.
    – Adesso lo schianto in fronte. – brontolai irritato mentre prendevo posto accanto a Deva, che ridacchiò in silenzio.

    Il tragitto da Richmond alla stazione di King’s Cross fu costellata dagli esilaranti racconti di Tyler su quell’estate. Normalmente mi avrebbe rotto ampiamente il cazzo, ma in realtà in quel preciso caso non me lo rompeva più di tanto, in quanto erano mesi che non potevo avere contatti con l’esterno, compresa la mia famiglia; era un po’ come vivere quei mesi attraverso quei racconti, in un certo senso.
    Merlino, quanto mi facevo pietà da solo.
    – …e Kyle si è preso una gran fissa per il sale…, si mise a dire poi, ma non lo stavo realmente più seguendo, almeno fino a quanto non sentii ridere Deva, alla quale scoccai un’occhiata strana. – Cazzo fa nostro fratello, si droga? chiesi a lei spiegazioni, ma quella si coprii la bocca con una mano fingendo di guardare fuori ma, invece, cercando di soffocare risa duplicate. – Si può sapere che cosa ti ridi, eh? la fissai con aria interrogativa. Deva si leccò le labbra e si sporse leggermente verso Tyler: – Tyler, non è fissato con il sale… e neanche si fa di droga spostò lo sguardo verso di me. – Tyler è… – parve cercare la parole, – …impegnato a passare il sale a nostra cugina. – la fissammo entrambi con aria interrogativa, come a dire: “ci stai pigliando per il culo?” – È il suo… dovere ritentò, ma anche stavolta con scarsi risultati.
    – Deva, ti prego, parla potabile… –, – Secondo me si droga lei… – ipotizzò Tyler, e in effetti avrebbe dato un senso a quella conversazione.
    Deva si schiarì la voce. – Ho sentito parlare i nostri genitori – cominciò. – Eeee…? – domandammo in coro, accigliati.
    Ennesima pausa. La suspance era palpabile.
    E… si sposano. – Tyler si soffocò col suo zuccotto. Deva, anziché aiutarlo, roteò gli occhi da un’altra parte.
    – Allora? Non dici niente? – mi domandò.
    La mia faccia doveva dire tutto, ma allo stesso tempo non abbastanza.
    – Che schifo. – ammisi finalmente, senza riuscire a trovare parole più giuste. – Beh, insomma, Anya è carina… –, Carina???!… è nostra CUGINA! – mi aggrappai al bordo del finestrino e feci finta di vomitare sull’asfalto londinese. Deva sbuffò. – Esagerato. Come se fosse una novità. –
    – Esagerato? E se ti dessero in sposa al cugino Peter?… ecco, esatto! additai la sua fronte aggrottata come la schiena di un gatto Sphynx. – Terribile. Poteva capitargli almeno la sorella, lei è più figa. Più stramba, certo…
    – Se solo non fosse una fata –, mi corresse.
    – … Giusto. – ammisi. – Va beh, ma loro che ne pensano–
    – Non ne pensano. –
    – Cioè non lo sanno? –
    – Esatto. Beh, lei non lo sa. La mamma e la zia vorrebbero lasciarli avvicinare “naturalmente”, per quanto possibile… –
    Stronzate. – tagliai corto, mettendo fine a una conversazione non più interessante.

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    Arrivati alla stazione, diedi solo un’occhiata rapida alla giovane coppia - un’occhiata ricca di pena, le mani sepolte in tasca - prima di salire sul treno e sparire nella folla dei vagoni.
    Fatta visita al mio vecchio gruppetto, mi feci una sana dormita fino all’ora di pranzo, quando - mentre tutti erano impegnati a mangiare - pensai bene di approfittare degli occhi dolci di una Tassorosso per approfondire la…conoscenza da qualche parte, in qualche scompartimento vuoto, e… pensavamo di averlo trovato. L’euforia, sapete, che mi spinse a lasciarle spalancare da dietro quella precisa porta scorrevole e lasciarsi spingere su quei precisi sedili.
    Il rumore umido dei nostri baci rieccheggiava nello scompartimento ormai chiuso, accompagnati solo dal suono delle rotaie mentre il paesaggio inglese sfrecciava oltre il finestrino semi aperto.
    Pensavamo.
    Feci per sfilarmi la cravatta, mentre la moretta prendeva a sbottonarmi la camicia, ma richiamò presto le mie labbra a sé, avida… almeno fino a quando non si accorse che qualcun altro fosse presente.
    O qualcun’altrA.
    – …Cugina, qual buon vento! – esclamai fingendo una sorpresa ricca di gioia mentre la ragazza, sotto di me, faceva per coprirsi meglio.
    – Hai scelto proprio un bello scompartimento. –

    Codice base realizzato esclusivamente per il forum di Hogwarts Glories ⚡️

     
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    «Se c'è qualcosa che posso fare per te, qualsiasi cosa Anya, basta che tu me lo dica, capito?» Mi aveva detto con tono mellifluo sfiorando col dito indice la mia guancia fredda. Fin da piccola ero solita avere una temperatura corporea molto vicina a quella dei cadaveri, cioè, insomma, so che forse questo non è il paragone più poetico di sempre, ma non ci posso fare nulla, è la verità. Non sapevo se dipendeva dal fatto che in me scorresse sangue che da generazioni si era abituato a vivere, o per meglio dire, sopravvivere, a ridicole temperature sotto lo zero o se banalmente il mio essere costantemente fredda e distaccata si fosse fuso così nel profondo in me da modificare persino il calore che il mio corpo avrebbe dovuto emanare, il fatto rimaneva quello e dubitavo sarebbe mai cambiato. Ciò che invece era cambiato era stato l'atteggiamento del compagno di mia madre nei miei confronti non appena il mio vecchio, si supponeva, ci aveva lasciato le penne. Era divenuto molto più carino con me e aveva cominciato a prendersi confidenze che prima non si era mai permesso di prendersi. Mi dicevo che era per via del trauma che si tutti credevano avessi vissuto, che in parte c'era avendo visto il corpo di un uomo crollare ai miei piedi senza più ossigeno a gonfiargli i polmoni, mi dicevo che era il suo modo di starmi vicino in un momento difficile, eppure c'era qualcosa nel modo con il quale mi guardava e sfiorava la mia pelle ogni qual volta ne aveva l'occasione, che mi pareva profondamente sbagliato. Avevo cominciato a sentirmi non poco a disagio in sua presenza e quando la mattina me lo ritrovavo al fianco del letto con un vassoio colmo di mignon e un cappuccino fumante, non riuscivo a fare a meno di domandarmi da quanto fosse lì e afferrando la tazza di porcellana fra le mani cercavo di quantificare il tempo in base al calore che emanava e mi inquietava constatare che certe mattine la tazza si rivelava essere decisamente meno calda rispetto ad altre, che mi fissasse mentre dormivo? No, non poteva essere, quella era roba da romanzi con protagonisti dai caratteri decisamente controversi e moralmente grigi, non erano cose che accadevano pure nella realtà, vero? Vero? «Certo, lo so, grazie mille ma davvero, non ho bisogno di nulla, credo mi ci voglia soltanto un po' di tempo per superare la cosa...» Mi ero sforzata di rispondergli apparendo cortese e pacata nei modi mentre gli poggiavo una mano sul ginocchio in segno di vicinanza emotiva, ma qualcosa nell'espressione di mia madre, tatticamente appoggiata con la schiena contro lo stipite della porta mentre ci fissava di sottecchi, mi lasciava intuire che non era per nulla contenta di quella vicinanza e forse pure per quello, dopo alcuni mesi dal mio rientro a scuola, non mi sorpresi troppo quando mi informò che dall'anno successivo avrei ripreso i miei studi all'estero, più precisamente in Inghilterra dove risiedevano i nostri parenti più prossimi, i Barnes. Una famiglia tanto ricca e potente, quanto misteriosa e spaventosa. Era composta dal padre; il capofamiglia dei Barnes, dalla madre; sottomessa da sempre al primo in una maniera che mi risultava difficile persino da biasimare, suscitando in me soltanto una sbiadita pietà e infine dai figli, quattro per l'esattezza, tre maschi e una femminuccia. Non avevo mai legato troppo con nessuno di loro ritrovandomi a passare la maggior parte del tempo assieme a insegnanti privati di vario genere, ma quando ero più piccola ricordavo di aver frequentato diverse lezioni in compagnia dei due Barnes più grandi, anche se col tempo tale compagnia si era fatta via via meno frequente, fino a diventare una rara eccezione alla mia ben più comune solitudine. Ricordavo persino di quando pure mia sorella era costretta a frequentare assieme a me interminabili ore di lezione, poverina, ci aveva sempre provato a stare al mio passo da che ricordavo, ma non ci era mai riuscita -anni dopo si era scoperto anche il perché- e mia madre l'aveva punita spesso per questo, la sgridava facendole pesare ogni suo difetto e imperfezione e a me dispiaceva a tal punto da fingere io stessa di non essere poi così brava in certe materie per far sfigurare meno lei. Non mi importava di come mia madre mi riservasse sguardi severi e punizioni, talvolta corporali, per i miei scarsi successi, semplicemente non volevo che Astrid non si sentisse all'altezza, ma poi avevamo raggiunto entrambe glu undici anni e la lettera dalla scuola di magia a lei non era mai giunta. Le dicevo che forse si era persa fra i tanti gufi, o che essendo nata durante i mesi estivi per qualche strano motivo fosse stata smistata fra gli studenti da invitare al castello di Beauxbatons soltanto l'anno dopo, ma la lettera non arrivò mai e le pressioni di mia madre si concentrarono soltanto su di me. Era divenuta cento volte più severa e se solo provavo ad uscire ancora fuori dai binari mi faceva passare un orribile quarto d'ora e col tempo avevo smesso di ribellarmi al suo volere limitandomi a piegare silenziosamente il capo mentre da lontano osservavo mia sorella, esclusa ma libera, cominciare a vivere la sua vita lontano da casa, lontano da quell'arpia che era nostra madre e la invidiavo per questo. La invidiavo con tutta me stessa e con gli anni avevo quasi cominciato a detestarla, attribuendo buona parte della mie costrizioni e sofferenze al suo non essere stata in grado di raggiungere e poi superare, gli alti standard che quella famiglia tanto conservatrice imponeva. Se tentavo di pensarci razionalmente non lo capivo nemmeno perché mi ostinassi così fortemente a soddisfare tali standard, mi dicevo che non mi sarebbe dovuto importare, ma dall'altra parte ne ero praticamente diventata dipendente, perché a ogni mio successo corrispondeva una frase gentile da parte di mia madre o a un sorriso sinceramente pieno di gioia e senza quelli la mia vita si sarebbe rivelata essere veramente vuota. Ora più che mai, perché se prima potevo rifugiarmi a casa da mio padre per qualche settimana all'anno ora non avrei potuto nemmeno più fare quello e così pur di assaporare ancora una volte sulle labbra quel sapore di appagante compiacimento che mia madre mi riservava tanto di rado, decisi che non mi sarei opposta nemmeno al lasciare la mia vita al castello Francese per passare alla scuola di magia e stregoneria di Hogwarts, tanto in fin dei conti dietro alle spalle non avrei lasciato nessun'importante amicizia o legame di alcun tipo essendoci nella mia vita solo posto per lo studio, anche se, anche se... quegli interminabili minuti in presenza del maggiore dei Barnes che mi avevano diviso dal treno in partenza a King's Cross, avevano messo a dura prova la mia volontà perché diamine, avrei preferito farmi mangiar viva da un amichevole branco di Acromantule piuttosto che dover passare un'altra manciata di minuti assieme a Kyle, ancora peggio poi se durante quei minuti mi fosse toccato sottostare ad altri imbarazzanti convenevoli.
    Fui grata all'espresso per Hogwarts perfettamente puntuale e in partenza al binario nove e trequarti per avermi fornito un perfetto rifugio dove starmene sola a ricaricare le energie sociali. Attesi giusto il tempo di accertarmi che il treno fosse partito e che nessuno strano avviso venisse comunicato attraverso altoparlanti magici -era tutto nuovo per me e non sapevo bene cosa aspettarmi-, prima di estrarre dal taschino interno della mia tracolla in pelle di drago marrone un telefono cellulare della compagnia magica per eccellenza di quelle diavolerie complicate. Vi ci attaccai delle cuffiette col filo e azionai una delle mie playlist preferite, puro e cattivo rock babbano fattomi conoscere da mio padre svariati anni prima e mentre le prime note prendevano a risuonare nelle mie orecchie rovistai ancora una volta dentro la mia ordinata tracolla magicamente estesa per trovarvici al suo interno un libro di testo parecchio interessante che presi a sfogliare curiosa canticchiando qua e là qualche strofa delle svariate canzoni nella mia mente.
    Fu un boato di legno strisciato contro altro legno a farmi rimestare dalla mia già precaria concentrazione e senza nemmeno dover connettere corpo e cervello mi mossi in automatico come un automa andando a raddrizzare velocemente la schiena e a spegnere l'aggeggio che diffondeva musica nelle mie orecchie per essere pronta a udire ciò che il mio interlocutore avrebbe potuto chiedermi. Perfetta, sempre impeccabilmente perfetta e pronta a mostrare la miglior versione di me, ma dall'altra parte nessuno mi rivolse la parola e mi accorsi ben presto che le persone che con gran carriera si erano addentrate nel mio tanto apprezzato scompartimento vuoto erano due ed erano decisamente intente a fare ben altro che parlare con me. Percepii le guance avvampare per l'imbarazzo, mi sentivo dannatamente di troppo dinnazi quella scena e l'osservare la ragazza sbottonare con tanta disinvoltura la camicia del ragazzo sopra di lei mi fece provare per un breve attimo una punta di gelosia. Pure io avrei voluto essere capace di tanta leggerezza e disinvoltura dal pomiciare e beh... svestire un ragazzo in pieno giorno all'interno di un treno pullulante di persone, ma io semplicemente non ero così e dubitavo sarei mai potuta divenirlo. Solo quando la mia attenzione si spostò sul volto del ragazzo -scoprendo così che apparteneva al secondogenito della famiglia che per tutta l'estate mi aveva ospitato in quei di Londra-, che l'imbarazzo l'asciò il posto a una fredda maschera di superiorità che ero solita riservagli con tanto impegno. Era già insopportabile così com'era, non serviva che gli dessi nuove ragioni per tormentarmi permettendogli di scoprire quanto certi atteggiamenti sfacciati mi mettessero a disagio.
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    «No ma se volete continuate pure... stavo giusto per recuperare dei pop-corn...» Dissi con tono divertito e vagamente derisorio mentre con dignitosa compostezza passavo a rivolgere la mia attenzione prima su di Harry e poi sulla ragazza e poi di nuovo su di Harry. «Ma almeno ce l'ha l'età per il consenso? Sai com'è...» Feci un allusivo gesto di manette attorno ai polsi come a ricordargli che no, l'età non era solo un numero. «Cos'ha spinto una così piacente ragazza a farsela con questo...» Squadrai il Serpeverde per un breve attimo evitando di soffermarmi sulla camicia sbottonata che lasciava intravvedere una forma fisica ben lontana da quella più bambinesca che gli ricordavo addosso solo pochi anni prima. «Coso...» Come altro avrei potuto definirlo? Delinquente? Fastidioso essere petulante? Stupido cavernicolo affamato di carne femminile? Immaginavo che ognuna di quelle definizioni gli sarebbe andata a pennello, ma coso, coso era più denigratorio. «Se qualcuno ti sta costringendo puoi dirmelo, posso aiutarti» Ora tutta la mia attenzione e il mio sorrisetto finalmente preoccupato erano concentrati sulla ragazza, che, rivestendosi velocemente e realizzando probabilmente ciò che era appena stata sorpresa a fare sul mezzo che la stava giusto riportando all'interno di un prestigioso istituto magico, scomparve oltre la soglia dello scompartimento camminando velocemente verso la parte opposta del treno, o almeno così immaginavo avrebbe fatto. «Opsie, ti ho forse rovinato i piani? Non immagini nemmeno quanto mi dispiaccia...» Sorrisi ancora una volta, questa volta guardandolo con fare decisamente più velenoso rispetto a quello impiegato pochi secondi prima. «Che gioia rivederti, cuginetto, mi sei terribilmente mancato quest'estate...»
     
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2 replies since 10/10/2023, 13:35   166 views
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