Get Busy

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    Sente lo sguardo di Daren Coleman puntato sulla sua schiena con insistenza da almeno cinque minuti e se inizialmente ha pensato che sarebbe bastato ignorare il compagno di corso per convincerlo ad andarsene, la limitata pazienza messa a disposizione di Caleb sta lentamente arrivando agli sgoccioli. Il piercing che rimane per la maggior parte del tempo nascosto oltre le labbra chiuse sbatte rumorosamente contro i denti, mosso dalla lingua che sta disperatamente lottando contro la voglia di sputare fuori qualche parola ben poco gentile. Prova addirittura a socchiudere gli occhi, contando mentalmente per evitare di lasciarsi prendere dalla foga... ma alla fine, il fastidio ha la meglio su ogni possibile buona intenzione. I muscoli si tendono nervosamente mentre si volta per fronteggiare l'occhialuto Corvonero, puntando verso la sua figura la piccola spatola che stringe tra le dita. “Cosa c'è Coleman, vuoi un cazzo di bacio d'addio prima di andartene?” L'altro sobbalza appena, evidentemente preso alla sprovvista dal repentino cambio d'atteggiamento da parte del Grifondoro. Balbetta qualche frase sconnessa prima di gonfiare il petto, trovando il coraggio di far valere qualcosa la nomina a guardiano delle chiavi dei laboratori che gli è stata data dai professori. Con l'indice spinge indietro la pesante montatura degli occhiali e, tirando indietro la testa con fare altezzoso, gli rivolge uno sguardo che vorrebbe essere autoritario ma mal ci riesce. “L'orario di chiusura dei laboratori è passata da mezz'ora e...” Uno sbuffo di risata interrompe il suo discorso sul nascere, facendolo balbettare nuovamente ed arrossire leggermente davanti all'aria strafottente dell'irlandese. “Bene, allora dì a questo stronzo di levarsi, così posso finire di sistemare i fondali ed andarmi a bere una birra.” Lo stronzo in questione è ben piazzato sulla sua alta poltrona da nobile ed è intento a carezzarsi la la lunga barba canuta, lanciando occhiate sbieche ai due giovani che stanno discutendo a pochi metri da lui disturbando la quiete che invece aleggia dentro al quadro nel quale vive da secoli. Gli è stato chiesto più volte di spostarsi momentaneamente in una cornice adibita ad ospitare i soggetti dei dipinti mentre i restauratori si occupano di ravvivare gli sfondi, ma non ha alcuna intenzione di lasciare il suo piccolo regno per alcuna ragione al mondo. Il moro a cui è stato affidato il compito di occuparsi del suo quadro inoltre è una sboccata canaglia, cosa che non aiuta in alcun modo la difficile contrattazione. Caleb indica con un gesto plateale della mano il dipinto di cui si sta occupando, come a voler invitare l'altro a trovare una soluzione al suo posto. Sconfitto, Daren si lascia andare ad un sospiro mentre poggia le chiavi del laboratorio su uno dei tavoli disseminati per tutta la stanza “Ricordati di chiudere bene quando hai fatto, allora...” Il rumore dei passi del Corvonero si fa sempre più lieve, fino a scomparire del tutto lasciando Caleb di nuovo alle prese con l'impossibile compito di far ragionare la regale figura dipinta. “Ci vorrà al massimo un'ora e ti assicuro che dopo, la tua stanza ti sembrerà ancora più bella” “La mia stanza va benissimo così com'è.” Per un solo attimo pensa di minacciarlo di squarciargli la tela, ma subito il volto rugoso e serio di Carl gli si para davanti agli occhi e sente la sua voce arrochita risuonargli nelle orecchie. Lascia la tua inetta violenza lontana dall'arte, Caleb. “Oh, fanculo... spero ti si incrosti il culo a quella fottuta sedia.” In cerca di un po' di aria pulita che possa aiutarlo a rilassare i nervi si avvicina ad una delle finestre disposte sulla parete ad ovest, spalancandone le ante prima di accendersi una sigaretta recuperata dal fondo della tasca frontale del logoro grembiule da lavoro che indossa. L'acre fumo che riempie i polmoni caccia via facilmente un po' di nervosismo mentre l'aria rigida di quella serata invernale invade la stanza, dissipando in parte l'acre odore prodotto dalle pozioni usate per il restauro.
    Fa in tempo a far giusto un altro paio di tiri prima che il rumore di qualcuno intento ad aprire la porta lo colga di sorpresa, costringendolo a gettare via la sigaretta per non farsi beccare. Che Coleman sia tornato ad affrontarlo, dopo aver ritrovato le palle da qualche parte sulla strada verso il dormitorio? “Ash, cazzo! Pensavo fossi quel coglione di Coleman, ho gettato via la sigaretta.” Rivolge uno sguardo sconsolato verso la finestra oltre la quale la sigaretta è scomparsa, prima di portarlo sulla figura minuta della Gwal, incontrando i suoi occhioni scuri che sono soliti regalargli sempre e solo sguardi pieni di giudizio. Da quando si sono ritrovati a condividere un trilocale nella torre senior assieme ad Adrian, non c'è stato un solo giorno passato senza doversi sorbire una sua ramanzina. Il fatto che sia arrivata fino ai laboratori di restauro per cercarlo non fa presagire nulla di buono. Cal alza un sopracciglio con fare interrogativo, in attesa che la ragazza lo renda partecipe del motivo che l'ha condotta fino a lì. Ha lasciato qualche preservativo in giro per casa? Si è dimenticato di annaffiare le piante o di spolverare le tende? La voce che gli colpisce l'udito, tuttavia, non è quella di Ashanti. “Ai miei tempi a quelle come lei non era permesso nemmeno di...” Ci sono limiti che è meglio non superare, non in presenta di Caleb, almeno. Il corpo scatta ad una velocità sorprendente verso la tela dalla quale quella cazzo di voce proviene, mentre la spatola passa da essere uno strumento ad un'arma, impugnata con forza nel pugno chiuso con abbastanza forza da sbiancarne le nocche. La punta metallica gratta appena la tela, proprio in corrispondenza del volto rugoso del suo protagonista. “Prova a dire un'altra cazzo di parola diversa da -mi dispiace signorina, sono un coglione- e giuro che farò tanti fottuti coriandoli con te e ti getterò dalla finestra. Ricordati che sei una schifosa imitazione di un quadro d'epoca, nessuno piangerà perché uno studente ti ha accidentalmente fatto sparire dalla faccia della terra”


    Edited by Judas! - 2/4/2024, 19:26
     
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    Ashanti Farisa GwalTHIS IS A MAN'S WORLD, BUT IT WOULDN'T BE NOTHING WITHOUT A WOMAN.

    LEO ☽ ARIES
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    Non importava quanto lunga fosse stata la giornata, quanto gravida di studio e lavoro, non importava neppure che per cena fosse stata costretta a riempirsi un'insalata con gli avanzi rimasti nell'ormai piangnte dispensa: non più di qualche chicco di mais, uvetta, e noci. Non poteva insomma esistere imprevisto al mondo che privasse Ashanti Gwal dell'intimo bisogno di prendersi cura di sé.
    Era il suo personale esorcismo dello stress, rituali ricorrenti che strizzavano l'occhio al principio di uno spettro ossessivo; le bastavano poche carezze circolari sul volto per veicolare crema e tensioni, una tisana all'elleboro fumante sul comodino, e un impacco di ghiaccio attorno alle caviglie che refrigerasse le terminazioni annichilite dalla stanchezza.
    Mens sana in corpore sano, per Ashanti, non era solo un proverbio.
    Fu così che la sorprese Daren Coleman, vittima inguaribile dell'insana abitudine di non bussare, quando si mostrò incapace di resistere al bisogno di esprimere tutta la stizza per quanto appena avvenuto nel laboratorio di restauro. Non riuscì a farla sobbalzare unicamente per via delle cuffiette infilate nei timpani, piccole cellule vibranti musica classica ad un volume utile ad annientare persino i boati dei cannoni, ma non poté nulla contro l'occhiata truce che la nigeriana gli incollò addosso non appena lo intercettò sulla propria traiettoria.
    Una mano sollevata davanti al naso fece allora svettare l'indice sulle altre dita chiuse a pugno, un chiaro monito che incitava all'attesa e invitava alla salvezza suggerendo di darsela a gambe al più presto; Coleman tuttavia non indietreggiò, sprezzante di un pericolo che si trovò di fronte appena più tardi, quando privata della musica Ashanti riascoltò l'annuncio che l'altro si era affacciato a porgerle.
    «Che significa che farà tardi?!» Squittì allarmata, indovinando il soggetto dell'avviso pur avendone mancato l'ascolto. «Tardi lo farà a casa sua quando ci tornerà!»
    Lanciato il dispositivo musicale magico sul materasso dalle coperte già scostate, inforcò le pantofole di peluche come fossero carri armati, e senza neppure valutare la possibilità di recuperare una vestaglia scansò in malo modo il corpo della spia, una spintarella laterale che le sgomberasse la strada.
    «Non accetterò un'altra notte di sonno interrotto da Lumos bisbigliati e cassettiere frugate. Nossignore.» Esasperata, iraconda come le tempeste, si impegnò a sbattere letteralmente ogni oggetto che le capitasse a tiro. «Qualcuno deve pur insegnargli la disciplina che sua madre non si è scomodata ad impartirgli.»
    Marciò dunque, punitiva come la spedizione più temibile, vestita solo dalla pregiata seta del pigiama, di una tonalità di bronzo che spiccava di tepore sul suo incarnato d'ebano. Elegante, molto più raffinata di quanto ci si aspettasse da una soldatessa appena entrata in azione, non si accorse neppure della mascherina da notte sollevata a reggerle i capelli che dimenticò nella fretta.
    «Walsh!»
    Un tuono, quello che le graffiò le corde vocali non appena l'aria odorante di legno e vernice arrivò a riempirle le narici. Nessun lampo ad annunciarne l'arrivo, solo lo scoppio di quel richiamo che avrebbe risvegliato persino i morti dalle tombe più prossime.
    Impassibile, non cedette alla compassione neppure quando osservò l'altro inciampare su uno spavento che lo portò a sporgersi oltre la finestra, là dove nascose un misfatto tuttavia confessato solo un attimo più tardi.
    «Mi sembra il minimo.» Cinguettò riguardo alla sigaretta. «Dovresti conoscere a memoria il regol-»
    Ogni muscolo si bloccò istantaneamente addosso allo scheletro, tuttavia, quando le parole affettate di una terza voce presente nel laboratorio ebbero il potere di ghiacciarla completamente da capo a piedi.
    ...Quelle come lei.
    Permesso di...

    Si accorse di aver smesso persino di sbattere le ciglia quando le sclere iniziarono a bruciarle, allora si riscosse dalla stasi del torpore e riemerse persino dall'apnea involontaria, boccheggiando ossigeno affinché i polmoni restituissero circolazione al cervello.
    Parve non essersi accorta dei movimenti del coinquilino né delle parole con cui tentò di difenderle la dignità fino a quel preciso istante.
    «...Lascialo.» Un soffio di voce, troppo flebile per essere udito, sfiatò da labbra improvvisamente aride. «Caleb, lascialo stare.»
    Deglutendo amaro, Ashanti compì i passi necessari a riempire lo spazio tra sé e il giovane, allungando una mano verso il suo braccio con l'intento di impedirne gesti irreparabili, impreparata al fastidio che provò rintracciando davanti agli occhi la famigliare oscurità che colorava la pelle della propria mano.
    La ritrasse, nauseata dalle proprie sensazioni, finendo per domandarsi perché quel giudizio riuscisse ad avere effetto proprio oggi, dopo anni a costruirsi una personalità inviolabile, battagliando per i diritti di donna e di immigrata. Sicura di non poter più cedere, era capitolata proprio quando meno se lo sarebbe aspettata.
    «Non mi succedeva da anni.»
    Un commento che rivolse più a se stessa che a Caleb, troppo abituata a rinnegare qualunque forma di autocommiserazione, lei che per natura riduceva le emozioni a meri calcoli statistici dai quali trarre conclusioni.
    Fissando il retro di un quadro finalmente zittito, attese che il formicolio delle membra si estinguesse completamente, prima di convincersi ad incontrare il volto di Caleb Walsh consapevole di avere ancora gli occhi pieni di fantasmi.
    «Ne hai un'altra? Di sigaretta intendo.» Puntò quindi alla finestra, con i passi e con le intenzioni, abbarbicandosi a sedere sul davanzale affinché la brezza serale le graffiasse piacevolmente il viso. «Altre due?»
    Niente avrebbe potuto farle più male in quel momento, d'altronde.
     
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    Gli occhi, ridotte a due fessure colme di risentimento, non si allontanano per un solo attimo dal volto rugoso del vecchio protagonista del quadro, quasi Caleb tema che al solo distogliere lo sguardo quello porterebbe avanti il suo discorso a scapito di Ashanti. Qualcuno cercherebbe (con ben poche possibilità di successo) di calmarlo spiegandogli come i soggetti dei quadri bisognosi di restauro siano spesso rappresentanti di altre epoche e mentalità, incapaci di rendersi conto di come il mondo sia andato avanti nel corso degli anni, ma l'irlandese non sembra propenso a cercare scuse di alcun genere per la merda che ha appena sentito uscire da quelle labbra dipinte in corallo. Gli basterebbe una lieve pressione del polso per lacerare la tela ed evitare che in futuro sentenze simili a quella che ha riempito il laboratorio vengano ancora pronunciate. A dirla tutta, gli sembra che un gesto simile possa essere considerato unicamente come un favore nei confronti dell'umanità. Potrebbe sempre dire che si è trattata di una sua distrazione ad aver irrimediabilmente rovinato il dipinto e ne uscirebbe comunque, nel peggior caso, con un voto di merda ed un ammonimento. La pallina metallica del piercing torna a battere nervosamente contro i denti al guizzare della lingua, mentre il ragazzo prende seriamente in considerazione l'idea di spingere ancora un po' la mano contro quella tela di merda. «Caleb, lascialo stare.» La manina di Ashanti contro il suo braccio non esercita abbastanza pressione da costringerlo ad abbassare l'arto, ma lo convince almeno a voltare la testa per intercettare il suo viso. Sente lo stomaco contrarsi davanti ai suoi occhioni resi opachi dai pensieri che stanno celando, le sopracciglia appena aggrottare e le labbra socchiuse per lasciarne uscire a forza qualche parola sussurrata, dal tono ben diverso da quello squillante che è solita usare. Non c'è alcun pensiero logico, ma solo il viscerale fastidio nel vederla improvvisamente così scoperta, spogliata da solo una manciata di parole dell'armatura che è solita indossare. Non gli sembra giusto che nessuno paghi pegno per quel torto. “Oh, fanculo.” Con un movimento stizzito si sposta di lato, recuperando un pesante telo che getta sul quadro per coprirlo agli occhi e lasciare che rimanga sepolto, il più lontano possibile da loro. Per quanto il silenzio lo metta a disagio, non prende in considerazione per nemmeno un secondo la possibilità di dare a quel quadro modo di proferire una sola parola. Ora sì che rimpiange di aver gettato via quella sigaretta. “Tutto ok?” «Non mi succedeva da anni.» Non sa bene come risponderle, Caleb, ben poco affine con l'arte di sputar fuori frasi di circostanza per alleggerire le situazioni spinose. È sempre stato più tipo da agire davanti ai torti subiti dalle persone a cui tiene, ma fare a botte con un quadro sembra piuttosto stupido persino a lui e la sua incapacità di trovare una soluzione semplice a quella questione, lo fa agitare ancora di più. Sente le mani prudere, mosse dalla voglia di colpire qualcosa.
    “Dirò al professore di restauro che questo quadro di merda non è adatto per far esercitare gli studenti... che sarebbe più utile usarne la cornice come legna da ardere, per esempio.” Sta per muovere la mano per colpire la tela ormai nascosta agli occhi così da farla crollare giù dal cavalletto, ma il pensiero che quel semplice sfogo non porterebbe alcun vantaggio ad Ash lo blocca a metà del gesto, mentre gli occhi la osservano avvicinarsi alla finestra. Istintivamente avanza di un passo verso di lei, quasi temendo che possa sparire nel buio oltre le ante come ha fatto la sua sigaretta. «Ne hai un'altra? Di sigaretta intendo.» “Mhmh. Però penso prenderò questa in cambio. Ho sempre voluto provarne una, sembrano così morbide.” Le dita si allungano verso il capo della nigeriana con gesti morbidi per evitare che si allarmi e finisca davvero oltre il bordo della finestra, sfilandole daila capigliatura corvina la buffa fascia per capelli. Se la passa tra le mani per qualche secondo, prima di sistemarla con qualche difficoltà tra le indisciplinate onde scure che sono solite scivolare fastidiosamente davanti agli occhi durante le lunghe ore in laboratorio. “Allora? Mi sta bene?” Non sarà il migliore nel trovare le parole giuste per consolare qualcuno, ma fare il buffone rimane pur sempre una delle sue specialità. Con un sorriso tinto da una leggera malizia dà modo ad Ashanti di bearsi della sua vista, mentre recupera il pacchetto di sigarette sgualcito per portarsene una alle labbra, prima di porgerne un'altra verso di lei. Con la bacchetta ne accende l'estremità, lasciando che il fumo acre gli riempia dolcemente i polmoni. “E comunque... cosa sei venuta a fare qui? Scommetto che avevi un bel discorso di rimprovero pronto solo per me. Ho lasciato qualche preservativo in vista come l'ultima volta? Giuro che sto cercando di farci attenzione.” Si siede per terra, poggiando la schiena contro il muro per dare sollievo ai muscoli che sono rimasti in tensione per tutte le ore trascorse a lavorare e le rivolge uno sguardo apertamente di sfida, sfrontato come solo lui sa esserlo. Ha intenzione di non darle tempo per rimuginare su quel che è successo... e sa bene come il solo parlare di sesso, sia sempre una carta vincente per far indignare la Gwal. “Insomma, mi aspettavo saresti stata felice di scoprire che hai un coinquilino responsabile che usa precauzioni ed invece...”


    Edited by Judas! - 2/4/2024, 19:27
     
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    LEO ☽ ARIES
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    Si sentì risucchiare da una centrifuga di vertigini e per poco non perse l'equilibrio, Ashanti, talmente a proprio agio nella propria etnia da aver sottovalutato i rischi esterni, quelli da sempre esistiti, gli stessi che la società moderna si impegnava a dissimulare e sminuire pur di non ammettere che il razzismo fosse ancora un morbo piuttosto vivo. E lo era, non solo all'interno delle cornici barocche di un dipinto centenario, ma né Ashanti né l'immaginario collettivo poteva ancora essere interessato a consacrarvi i propri nervi. «A ben pensarci, è perfettamente didattico in riferimento all'epoca a cui appartiene.» Lo disse in un mormorio sommesso, docile, quasi trasognato, come se trovare un rovescio della medaglia a quanto appena accaduto fosse il modo più rapido di esorcizzarlo. «Non possiamo insegnare il passo coi tempi a un quadro.» Volle sorridere ma non ci riuscì, deglutì allora tutto l'amaro e si lasciò ingoiare dal silenzio dei pochi istanti successivi, quelli che servirono a entrambi per ritagliarsi un frammento di realtà ai margini delle regole, un limbo sicuro dove recuperare il respiro prima di riprendere la maratona della vita.
    Talmente stordita da quel black-out emotivo, si lasciò cogliere alla sprovvista persino dall'avvicinamento di Caleb, intento a sottrarle la fidata fascia elastica della cui esistenza si era addirittura dimenticata. Non che avesse badato a riporla prima di affrontarlo, la convivenza lo aveva indotto più volte ad osservarla nelle condizioni meno appetibili da ogni essere umano, ma Ashanti Gwal non aveva ancora preso consapevolezza del proprio corpo e delle proprie forme, figurarsi se potesse badare in qualche modo alla propria sensualità.
    Ancora barricata dietro ai grossi occhioni sgranati di orrore, fissò per qualche secondo l'immagine dell'altro imbellettata dal bizzarro accessorio, prima di cedere al singhiozzo di una risata trattenuta che le strinse liberatoriamente la gola.
    «È terrificante.»
    Sentenziò, non riuscendo a trattenere la distensione degli angoli delle labbra, né il tintinnio caldo di qualche altra risata soggiunta, simile al tepore di una sorgente fluviale. Non era mai indiscreta, Ashanti, sempre troppo composta e modulata, forgiata nella disciplina mentale e in quella fisica come una dama d'altri tempi, o un soldato. Scosse piano la testa, infine, accogliendo la sensazione di sollievo che parve discenderle nello sterno, la stessa che si prova rientrando a casa la sera o raggiungendo una pergola nel pieno di un temporale.
    Era passata.
    Non che vi fosse comunque altro tempo per rimuginare, considerando la disinvolta sfacciataggine con la quale Walsh la coinvolse in uno dei temi più spinosi, ingestibili, e disagianti per chi come lei rifuggiva in ogni modo le relazioni con l'altro sesso. O con il sesso in generale. «Ho lasciato qualche preservativo in vista come l'ultima volta? Giuro che sto cercando di farci attenzione.» Inorridì all'istante, quasi avesse appena ascoltato quel che di più ripugnante fosse concesso udire, e d'istinto si portò le mani ai lati del viso, possibilmente sulle orecchie, serrando gli occhi dietro a palpebre che non riuscirono a cancellarle dalla mente il ricordo di tutti quegli involucri umidicci trovati spesso sotto al divano o sul bordo del cestino nel bagno. «Non...! Non dobbiamo necessariamente parlare delle ricorrenti manovre delle tue gonadi.» Sibilò a denti stretti, accertandosi che lui si fosse zittito prima di tornare a guardarlo e ascoltarlo, la fronte bonariamente aggrottata in un'espressione contrariata. «Rimproveri sì, comunque, te ne guadagni a palate ogni giorno.» Ci tenne a concludere con quel che desiderava confessargli praticamente ogni volta che i loro percorsi si incrociavano, quasi mai per studio quanto più proprio per divergenze abitudinarie. Come fossero finiti a condividere il dormitorio, in effetti, restava il mistero più grande; che nessuno dei due si fosse ancora convinto a fare le valigie, però, era indice del serio impegno che entrambi tentavano di infondere in quel reciproco migliorarsi al fine di rendersi animali sociali leggermente migliori.
    «Coleman mi ha detto che avresti fatto tardi, ma non ha specificato il motivo.» Annunciò allora, concedendogli la scioltezza di una conversazione al contrario delle loro abitudini. Nessuna acidità né intonazione piccata, era come se Ashanti si sentisse improvvisamente troppo stanca per portare avanti battaglie che di fatto non le spettavano. «Credevo fossi impegnato a consolidare il patriarcato tra le gambe di qualche ammiratrice Continuava a rigirarsi tra le mani la sigaretta accesa, sempre più consapevole che non l'avrebbe fumata ma disperatamente bisognosa di un impegno materiale nel quale concentrare le meningi.
    L'ombra di un sorriso si sarebbe lasciata notare negli occhi ancor prima che sulle labbra, ma sarebbe stato più facile accorgersi della leggerezza dell'atmosfera nella quale avveniva un discorso tanto complesso. Le dinamiche d'accoppiamento promisquo di Caleb Walsh erano piuttosto note alla maggior parte della scuola, niente di cui lui avesse mai sentito il bisogno di vergognarsi né qualcosa su cui Ashanti avesse ampio margine di giudizio. Aveva accettato che l'adolescenza funzionasse in quel modo per la maggior parte dei coetanei, la maggior parte eccetto lei, e si limitava a sopravvivere in quel monsone ormonale dal basso della sua iper-razionalità patologica.
    «Non che sarebbero affari miei, comunque.»
    Specificò dunque, perché trovava fondamentale chiarire il disinteresse con il quale orbitava attorno a quelle argomentazioni. Che non la si pensasse a perdere il sonno sull'analisi gnoseologica dei comportamenti dei giovani uomini, proprio lei che amava pensarsi già donna completa e finita, non mancante di niente nonostante l'ampia assenza di scambi emotivi interpersonali. «Mi sono sempre chiesta come facciate, però.» Uno scorcio, una falla aperta dalla debolezza appena mostrata, l'idea che forse quella era la notte giusta per esplorare l'ignoto. «Voi libertini, intendo. Come funziona? Tenete il conto? C'è qualche classifica generale?» Non era certa di essere pronta a quelle risposte, era in realtà piuttosto sicura che non le avrebbe apprezzate, ma Caleb aveva ben poco da perdere all'attenzione della sua opinione. «Oppure semplicemente dimenticate quanto accaduto non appena vi riabbottonate i pantaloni?» E forse sarebbe stato saggio ridimensionare al più presto tutta la premura appena osservata, affinché continuassero a non esistere in lei pretesti per perdere il sonno su pensieri inconsulti.
     
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