quarter past midnight

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    Caposcuola
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    In piena notte, le torrette ovest del Castello erano immerse nel silenzio più totale, all'infuori del rumore del vento a soffiare e fischiare attraverso le finestre serrate. C'era chi osava affermare che quel suono costante fosse addirittura rilassante. Oltre le spesse tende di una camera dei dormitori Corvonero, nel letto a baldacchino coperto con una spessa trapunta in seta color blu, il corpo dalle forme piene ed armoniose della rossa si agitava e voltava fra le lenzuola. Qualsiasi cosa stesse sognando - od ascoltando - si risvegliò di scatto, con un sussulto violento. Sollevando la schiena dal letto, si accasciò in avanti portando una mano sul petto a sobbalzarle per i respiri affannati. Un terrore notturno. L'ennesimo. Si sentiva ancora soffocare, bloccata nella trappola di quel sogno gelido e torbido al quale troppo spesso si mescolavano i ricordi. Aria. Ho bisogno di aria. Si morse le labbra e si guardò attorno nella camera tenebrosa, gli occhi ancora annebbiati dal sonno e l'incubo. Fuori dalla finestra era ancora buio. Controllò l'ora, sull’orologio sul comodino: mezzanotte e un quarto. Troppo presto, per iniziare a prepararsi per un'altra giornata di lezioni; troppo tardi, per accendere la luce della lampada e provare a calmarsi leggendo qualcosa. Si alzò piano dal materasso, sospirando e cercando di fare il meno rumore possibile per non disturbare Weed, la sua compagna di stanza. Condividevano la camera da ormai sette anni, suddivisa in due aree ben distinte in base alle loro personalità così differenti. Se la parte sulla destra di Maeve era un tripudio di colori pastello, un guardaroba esagerato, scarpe, gioielli e cosmetici di lusso; quella di Wednesday aveva quasi l'apparenza di una fotografia in bianco e nero, a partire dalla figura stessa della Mortimer. Assicurandosi che l'amica non fosse stata svegliata dai suoi rumori, sgattaiolò fuori in silenzio e scivolò con passo felpato lungo il corridoio. Sapeva già dov'era diretta: percorse l'intero passaggio in rettilineo, soffermandosi in prossimità della grande vetrata che portava sul balcone all'esterno. Stranamente, per la prima volta da quando si rifugiava lì fuori da anni alla ricerca d'aria, trovò la finestra già aperta e socchiusa. Non ci bado poi molto, con un primo spiffero gelido a risalirle lungo le gambe nude. Non si era neppure premunita di coprirsi troppo, anzi la sensazione di freddo e l'aria notturna delle Highlands contribuirono subito a scuoterle il corpo dallo stato di intorpidimento ed apatia nel quale si trovava. Non provava nulla, Maeve. Fisicamente ed emotivamente, tutto ciò che sentiva in quegli istanti - e non solo - era la sensazione persistente d'essere... Vuota. Appoggiò la testa alla parete di pietra, ascoltando il sibilo del vento, mentre inspirava profondamente e sentiva il polmoni bruciarle. Sollevò appena il viso, osservando le stelle risplendere fioche in quel cielo tenebroso appena annuvolato, una mano poggiata sullo sterno. Più minuti passavano, maggiormente le dita le si intorpidivano dal freddo, ma non riusciva a percepire davvero quelle sensazioni. Ci si poteva sentire invece, così eternamente insoddisfatti? A guardarla dall'esterno, a Maeve Cousland non mancava assolutamente nulla. Era sicura di sé; nella sua camera blindata alla Gringott erano depositanti più Galeoni di quanti avrebbe potuto spendere in una vita intera; era popolare, nel corpo studentesco quanto nell'ambiente sociale nel quale un giorno avrebbe voluto sfondare come personalità politica. Aveva tutto. Eppure... il più delle volte, era così carica di frustrazione e con quel perenne senso di vuoto che si ritrovava a coesistere. Come se non avesse niente. Una parte di lei, la più razionale da degna figlia di Priscilla Corvonero, sapeva perfettamente a cosa fosse dovuto e cosa davvero le mancasse: la libertà. Le sembrava sempre d'essere separata da una distanza infinta, dai suoi coetanei. Non perché si sentisse migliore, più adulta, o più intelligente, piuttosto sentiva… di non avere mai la piena padronanza della propria vita - e di non potersi permettere, come alcuni dei suoi compagni, di lamentarsi di questioni effimere come quelle che la circondavano odiernamente nel Castello. Lei aveva altro a cui aspirare. Altro a cui pensare e badare. Era un uccellino rinchiuso nella sua gabbia dorata. Certo, con delle sbarre d'oro luccicante, ma pur sempre imprigionata in un'esistenza che - man mano che cresceva - iniziava a starle sempre più stretta. Conosceva bene anche il nome, del responsabile del suo disagio interiore: Coriolanus Cousland, il sommo Ministro della Giustizia. Le venne da ridere, per l'assurdo successo e sostegno che suo nonno stava riscuotendo sin da quando aveva vinto le elezioni. Se ti vedessero come ti conosco io, saresti davvero così tanto rispettato? Era impossibile, che qualcuno potesse mai sospettare od avere delle riserve su uomo dalla morale e la fedina così linda come il Vecchio. Soltanto lei e Caél, ne conoscevano la reale natura - sua e delle sue "punizioni". O dei suoi metodi educativi, così come li definiva sin da quando ne aveva memoria. Da bambina. A suo credito, c'era da riconoscergli che avesse sempre fatto in modo che i suoi castighi non la sfigurassero in modo permanente. Che i segni, gli incantesimi e malefici per rimetterla in riga quando qualcosa sfuggiva al suo controllo da egomaniacale, non le lasciassero addosso nessuna traccia visibile. Soltanto una volta, aveva creduto di poter morire di dolore. Riusciva ancora a sentirla, la magia oscura sfrigolare fuori dalla bacchetta di Coriolanus e colpirla al fianco, entrandole a contatto con la carna viva, riverberando in tutto il corpo come una frustata. Si toccò il costato, al di sotto della camicia da notte, nella parte inferiore del seno destro. Sentì la cicatrice sotto le dita e soltanto allora, si permise di rabbrividire e ridestarsi da quello stato di distacco. Stava congelando, lì fuori. Con uno sbuffo, l'aria a condensarsi in una nuvoletta, ritornò all'interno della torre e richiuse la finestra. Con la mente più lucida, rinfrescata dal gelo, percorse a ritroso il passaggio ammonendosi mentalmente per quella sua debolezza. Sei Maeve Cousland e non devi avere paura. La porta di una delle camere si aprì con un leggero cigolio e, assorta nei pensieri e nel vano tentativo di scaldarsi le braccia, la rossa si accorse troppo tardi della figura che ne fuoriuscì di soppiatto richiudendosela alle spalle. Urtò la spalla contro qualcuno, finendogli addosso letteralmente come un fantasma appena apparso dal nulla nel corridoio.
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    « Ops, scusa-... » bisbigliò con un tono di voce bassissimo, per non svegliare qualcun altro, dovendo aggrapparsi per istinto al braccio dell'altro per non cascare all'indietro. Immaginò, prima di poterne mettere a fuoco il volto e la corporatura, si trattasse di un'altra Corvonero nottambula od in cerca del bagno. Invece, non appena compì un passetto di lato per liberare il transito all'altro, Maeve si fermò con gli occhi smeraldini puntati verso il ragazzo che si ritrovò davanti. Nella penombra del corridoio lungo e stretto, sbatté le palpebre a rilento un paio di volte, prima di riuscire a metabolizzare e riconoscerne i lineamenti. « Sto assistendo a qualcosa di veramente curioso: non mi sembri né una ragazza e ancor meno un Corvonero, fortunatamente per noi. » si fermò e avvicinò il viso a quello di lui, la solita espressione imperscrutabile mentre sollevava il sopracciglio in beffarda sorpresa. « Che diamine ci fai, tu, qui? » proseguì, incrociando le braccia al petto. Il suo guardaroba da notte era talmente raffinato e costoso, al pari di quello odierno, da non preoccuparsi di spingersi a controllare la scollatura o coprirsi le gambe nude. Quel tipo di timidezza, l'aveva persa anni addietro, quando le avevano insegnato quanto la bellezza fosse un’arma da tenere ben affilata al pari della mente. « Domanda retorica, non sforzare le tue meningi per tirare su una qualche storiella idiota. » agitò una mano in aria, continuando a parlare sottovoce anche dopo aver spostato l'attenzione dal moro, per puntare lo sguardo sulla porta dalla quale era appena sgusciato via. Impiegò un attimo di troppo, nel fare appello alla sua memoria per la disposizione dei dormitori. Era la camera di Millicent Page, che scartò a priori conoscendola personalmente - e che molto probabilmente era stata sfrattata in un'altra stanza per quella sera; e di Amelia Thompson. Quella Amelia. La stupida sorella di Donald Thompson. A distanza di anni, continuo a chiedermi ancora come sia possibile che il Cappello l'abbia smistata fra di noi. È tanto priva di contenuti quanto suo fratello, se non altro. Sarà per il suo bel faccino. « Sul serio? Amelia Thompson? Mh, sì in effetti è piuttosto logico: easy e flighty sono le conquiste più semplici, vero? » Perché diamine siete tutti uguali? La guardò con aria sorniona, ma sotto quella maschera di placida e bonaria indifferenza, il sorrisetto di velato sfottò che gli indirizzò era ancora troppo spento. Più del solito. Parlare, tuttavia, distrarsi seppur con qualcuno che sulla carta non sopportava granché... l'aiutò, almeno un minimo, nel ristabilire un equilibrio. « Quindi, cosa dovrei fare ora con te? » Batté il piede sulla pietra fredda del pavimento, gli occhi verdi fissi e impenetrabili mentre lo osservava. « Prima che tu faccia battutacce, col rischio di ritrovarti schiantato tempo un secondo, vuoi un elenco delle infrazioni? » lo incalzò, ma si strinse quasi subito nelle spalle e sospirò con fin troppa artificiosità. Come i suoi sorrisi. Le occhiate. Le parole. Quanto c'è di vero ormai in te, Maevey? « Sono una Caposcuola magnanima, dopotutto. Lascio decidere a te, se preferisci autodenunciarti e farti sbattere in una di quelle punizioni talmente esemplari da farti rimpiangere d'aver messo piede qui, per seguire i tuoi ormoni da quindicenne, o provare a convincermi a non farti cacciare direttamente stavolta. Chissà se esiste un limite, alle violazioni per cui la Spellman riesce a chiudere un occhio. Vuoi sfidare la sorte? » Vuoi sfidare me? Seppur non pronunciò quell'ultima domanda, era quello il reale - insito - senso delle sue parole e dell'espressione provocatoria che - finalmente - le colorò appena il viso troppo pallido, ridandole una traccia di calore. Era una sfida, non una richiesta. Una sfida a farle cambiare idea, o a convincerla in qualche modo a lasciar correre quell'intrusione. Era consapevole, Maeve, di quanto stesse rendendo più gravose le possibili conseguenze che si sarebbero imbattute su di lui - col solo scopo di stuzzicarlo e spaventarlo, per la sua scarsa predisposizione a seguire quelle regole basilari. E per dei pensieri, inopportuni, che a volte aveva carpito non volendo in quella testaccia. Al massimo, l'avrebbero davvero costretto a qualche punizione più seria del solito, ma esasperarlo e provocarlo stava ottenendo un effetto inaspettato su di lei: si era allontanata un po', dall'incubo, il peso sulle spalle e la sensazione di vuoto nel petto. « I Grifondoro sono coraggiosi, in teoria, da quel che si dice. »
     
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