Rage against the dying of the light.

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    Annabelle CarrowMADRE È L'ALTRO NOME DI DIO SULLE LABBRA E SUI CUORI DI TUTTI I NOSTRI FIGLI.

    Tutto, in quel salotto, taceva.
    Il velluto decennale dei divani, la damascata carta da parati e i ritratti animati degli avi, persino le due fidate creature vagamente antropomorfe non erano mai state prima tanto immobili: Ava e Bae affiancavano la poltrona riempita dalla signora Carrow, l'una a destra e l'altra a sinistra, tenendo gli occhi rigorosamente bassi per non rischiare di infastidire la padrona col più piccolo movimento oculare. Erano da poco scoccate le due di una notte tempestosa, gli argentei baluginii dei lampi suscitavano l'invidia del fuoco ormai morente nel camino tiepido; la penombra non rendeva giustizia al profilo di granito della donna dai capelli neri, oscurava l'inquietudine nei suoi occhi e nascondeva il solco umido della lacrima solitaria discesala quasi per sbaglio lungo la guancia. Nessuna tristezza né nostalgia a riempirla, solo frustrazione, gemella del senso di umiliazione derivato dall'ennesima notte consumata in un'attesa vana, sterile e vuota. Era difficile persino comprendere quale punto della stanza stesse fissando da ormai un paio d'ore, se il battiscopa o piuttosto il persiano, ad un'occhiata poco attenta sarebbe addirittura potuta sembrare una statua parte dell'arredamento.
    «Basta così!» Lo scoppio della voce si accompagnò al tonfo di un pugno impattato sul bracciolo della poltrona, colpevole del brusco sobbalzo di entrambe le elfe domestiche, che rabbrividendo all'unisono scattarono in avanti di un passo ciascuna, ancora incapaci di comprendere come poter essere d'aiuto.
    Che sciocche, come potrebbero mai arginare un fiume in piena?
    «Assicurate ad Alastor ninna nanne e carezze sulla testa.» Sbrigativa, scattò in piedi infrangendo con quell'unico gesto la bolla di immobilità che aveva quasi iniziato a paralizzarla. La lunga veste da notte nascondeva per intero le gambe snelle, due giunchi svelti a condurla fuori dalla stanza su passi marziali. «Non ci vorrà molto.» Aggiunse quella specifica seppur consapevole che le due serve non ne necessitassero, abituate ad obbedire a discapito di qualsiasi senso logico insito in quanto ascoltato. Sparirono infatti piuttosto in fretta dalla vista della Signora, ricomparse in uno schiocco direttamente nella cameretta del bambino avvinto alle braccia di Morfeo. Sua madre, intanto, guadagnato l'ingresso si impegnò a trasfigurarsi gli abiti con solo un colpo di bacchetta, accorciando la veste in un più pratico tailleur dalla gonna lunga fino al ginocchio, un lungo impermeabile nero a sigillarne la silhouette e i piedi aggraziatamente intenti ad infilarsi in un paio di decolté laccate in vernice nera, non certo le calzature più adatte a una notte di temporale.
    L'auto incantata la condusse mai margini di Hogsmeade, costringendola a percorrere il sentiero finale a piedi sotto alla cupola di un ombrello di nylon. Sapeva dove andare, Belle, era certa di non poter sbagliare strada, eppure l'irrequietezza divenne inaspettatamente tachicardia nella sua cassa toracica, appena prima che la Clifford Zone riempisse per intero il suo campo visivo.
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    Richiuse l'ombrello mentre già divorava la scalinata in salita, indifferente alle tracce acquose che si lasciava alle spalle come una scia; sprezzante dell'evidente incompatibilità tra la propria figura e l'ambiente circostante, la donna si lasciò ingoiare dalla sregolatezza dell'unico posto in cui sapeva di poter trovare il consorte a quell'ora della notte, proprio mentre lei sarebbe dovuta essere già addormentata in un letto freddo per metà che non aveva mai accettato di condividere.
    Adocchiato un energumeno con tutta l'aria d'essere un frequentatore assiduo, la strega ne approcciò la stazza col mento alto e l'atteggiamento della gazzella più sprovveduta. «Efrem Carrow.» Scandì il nome per esteso, certa che non ci fosse bisogno di sillabarlo per riconoscere una delle più importanti stirpi della società inglese. «Dov'è?» Alla risata che giunse a risponderle, però, non poté dirsi pronta. Indietreggiò appena di un passo, intenta almeno a schivare le gocce di saliva sputacchiate da quell'esplosione di rozzo sarcasmo, ma che riuscisse a tenere a bada l'istinto che ne incendiò all'istante le viscere, quella sarebbe stata da considerarsi follia. Il braccio destro si mosse, ammutinato alla razionalità, scattando ad impattare sul volto dell'estraneo in uno schiaffo degno della più severa educatrice. Sconvolta da se stessa per quanto appena accaduto, Annabelle si concesse di spalancare di più gli occhi, ma anziché abbassare la guardia ripeté la domanda esposta poco prima con la voce appena incrinata in un ringhio esasperato. «Dov'è?!» Non era certa di essere pronta a raggiungerlo, al di là del separé verso il quale planò lo sguardo dell'interlocutore attonito e stranito ad un tempo solo, ma era sicura di non poter tollerare ulteriori oltraggi a una vita coniugale che nessuno dei due aveva scelto, ma che entrambi erano costretti a indossare.

     
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    Le dita seguono il profilo di quella coscia ambrata, portandola a posarsi contro la propria spalla mentre il capo si abbassa appena il necessario per portare le labbra e la lingua a scivolare lì dove la carne è più umida e calda. Efrem la sente gemere al tocco della propria bocca, quella donna priva di nome o di una qualsiasi reale importanza, facendo scorrere più in fretta il sangue nelle vene nell'avvertire gli spasmi della sua intimità tra quale a breve si immergerà completamente, così da poter scappare ancora una volta da qualsiasi pensiero che lo conduca a considerazioni ben meno piacevoli di quei sensuali brividi che gli accapponano la pelle delle braccia e portano la fronte ad imperlarsi di sudore al punto da lasciare che qualche ciocca dei lunghi capelli ci rimanga incollata contro. Ha i sensi alterati dall'artiglio di drago ed ogni sensazione sembra amplificarsi a dismisura, riverberando fin al cavallo dei pantaloni improvvisamente troppo stretto per poter contenere l'eccitazione appena fiorita tra le pareti di quella saletta privata, persa nei meandri del Clifford. Gli ansimi di quel corpo flessuoso sono una melodia che sovrasta il rumore dei suoi pensieri, donandogli quel meritato distacco dalla realtà che ha bramato per giorni e che solo ora, chino tra quelle cosce schiuse, è in grado di trovare. E ne beve fino a saziarsi, il Carrow, di quel nulla così oltraggioso e peccaminoso, di quel peccato carnale che il mondo volterà ancora una volta il capo per far finta di non vedere. Per far finta che lui non esista. Il profumo del sesso gli riempie le narici e lo costringe ad inclinare il capo per riprendere fiato, dando opportunità alla donna seduta sul divanetto di poter carezzare con i polpastrelli il profilo della mascella coperta dalla barba ben curata, stringendone poi qualche filo ispido tra le dita per condurlo a forza contro il proprio volto, lì dove potrà esigere un bacio furioso mentre l'altra mano è già intenta ad abbassare la zip di quei pantaloni decisamente di troppo. Sente le ditine intrufolarsi oltre la stoffa dei boxer il moro, bloccandogli il fiato a metà di un respiro quando si stringono attorno alla sua virilità per poi prendere a scivolare senza alcuna esitazione lungo la carne tesa dal desiderio. Dalla necessità di sparire in quell'ennesima notte lontano dalla vita nel quale suo malgrado si ritrova a morire ogni giorno, lentamente ed inesorabilmente. Il bacino si muove istintivamente in avanti per seguire i movimenti di quella mano peccatrice mentre gli occhi si assottigliano fino al punto da nasconderne del tutto il colore. «Dov'è?» È una voce lontana, poco più di un sussurro, quella che porta le sopracciglia scure ad aggrottarsi di un leggero moto di fastidio. Perché immaginare la voce di Annabelle proprio in una situazione simile? Ostinatamente cerca di allontanare qualsiasi possibile pensiero derivato da quell'allucinazione uditiva, lasciando scivolare la bocca lungo uno di quei seni palpitanti che come un'ancora di salvataggio arrivano in suo soccorso per ricordargli di dove si trovi e di cosa stia facendo. Affonda prepotentemente i denti in quella carne, imponendosi di tornare al presente ed alle promesse di piacere che quel corpo sempre più umido sembra promettere. «Dov'è?!» Gli occhi si aprono di scatto quando la voce torna ad irrompere violentemente tra le tempie, costringendolo a far scattare una mano attorno al polso della donna per bloccarne i movimenti. Ha ancora il fiato corto quando porta lo sguardo in quegli occhi dall'aria confusa.«Aspetta, aspetta... l'hai sentito anche tu?» Al cenno d'assenso della mora risponde un'imprecazione tra i denti improvvisamente serrati dalla frustrazione, mentre già la allontana da sé con presa ferrea, tornando poi a tirar su i pantaloni con gesti che a stento riescono a nascondere l'improvvisa fretta.
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    «Devo andare. Per il disturbo, ecco...» Preleva dal portafogli qualche banconota che allunga verso di lei, prima di voltarle le spalle senza degnarla di una sola parola in più. Non rimane per osservare le lacrime di frustrazione davanti all'umiliazione di essere pagata alla stregua di una prostituta, né per consolarla con qualche parola gentile che possa rendere meno pesante il suo allontanamento. No, perché Efrem sembra non riuscire a vedere più altro che non sia la figura della donna che se ne rimane immobile al centro della sala sulla quale affacciano tutti i privé del locale. Annabelle ed il suo volto di tenebra, Annabelle e le sue labbra costantemente contratte, i suoi occhi pieni di giudizio, le sue mani sempre troppo lontane. Con la mano destra porta i capelli lontano dalla fronte, cercando di darsi un contegno mentre avanza verso di lei. «Annabelle, amore, eccomi. Andiamo a parlare in un posto migliore, ecco, qui...» Il braccio che arriva a circondarle la vita non le lascia possibilità se non quella di seguirlo oltre un pesante tendaggio, lì dove nessuno sguardo indiscreto potrà seguirli. E basta davvero solo quello per far sì che le dita passino dalla più premurosa carezza alla più spietata presa, correndo fino alla gola della donna per spingerla di peso contro la parete. Non ha mai alzato un dito su di lei, Efrem, prima di ora. Non ha mai sollevato il suo corpo da terra così, come se fosse privo di peso, impedendole di respirare mentre stringe la presa in corrispondenza della trachea, bloccandola tra il muro ed il proprio corpo per non lasciarle modo di sfuggirgli. «Cosa cazzo ci fai qui?» Ringhia ad un soffio dal suo volto, gli occhi solitamente tanto freddi accesi di una scintilla che minaccia di dar vita ad un incendio mentre pretende da lei una valida motivazione alla sua improvvisa comparsa. «Cosa pensi di fare, Annabelle? Chi pensi ti dia il diritto di togliermi anche questo?»
     
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    Annabelle CarrowMADRE È L'ALTRO NOME DI DIO SULLE LABBRA E SUI CUORI DI TUTTI I NOSTRI FIGLI.

    Era pronta ad eleggere a sacrificio chiunque le si parasse davanti, senza discriminazione alcuna per genere o stazza, disposta persino a radere al suolo l'intero locale pur di scovarne tra le fondamenta l'uomo che era stata costretta a sposare, quel compagno di vita che mai aveva potuto dirsi tale, troppo irrisolto e in guerra con se stesso per poterla davvero vedere, o anche solo guardare. Non ricordava quand'era stata l'ultima volta in cui si era sentita desiderata da Efrem Carrow, non ricordava in effetti se si fosse mai realmente sentita tale, costretta ad ottemperare agli obblighi coniugali solo per risparmiarsi l'umiliazione di un mancato erede, ma avvinta in quelle poche notti condivise col consorte da un gelo interno ed esterno che ne aveva irrigidito la carne e lo spirito solo in attesa che lui finisse.
    Non ebbe il tempo di domandarsi se anche quella sera Efrem riuscì a finire quanto iniziato, non ebbe neppure la possibilità di vederlo arrivare, obbligata a sopperire allo sgradevole effetto sorpresa che la attanagliò quando avvertì il suo braccio attorno alla vita, un gesto che sarebbe parso naturale e giusto a chiunque, ma che per Annabelle significò ipocrita preludio della più tonante tempesta. «Tu non...!» Sentì i muscoli irrigidirsi sulla difensiva in uno spasmo unico, contratti a proteggere un'anima incapace di sottomettersi ma nata per farlo, quasi bastasse tendere l'addome per respingere il possesso di un marito che non l'aveva mai voluta. Non che vi fosse margine di reazione possibile alla prestanza dell'altro, comunque, capace di divenire un indeformabile fascio di nervi con l'ausilio dell'artiglio di drago e di un'abbondante dose di sonno arretrato - senza contare la soppressione di una libidine sulla quale Belle avrebbe cercato di non pensare più del necessario - motivi questi che la costrinsero ad accelerare il passo per non inciampare nei suoi stessi piedi mentre lui la trascinava letteralmente in disparte, in uno di quei covi di sregolatezza che puzzavano di sesso e vino inacidito. «Fermati, Efrem, lasciami!» A nulla valsero gli strattoni, né ebbero vita particolarmente lunga tutte le speranze di rivalsa covate nel tragitto fino al locale; quando Annabelle Hallmoon si sentì impattare violentemente contro la parete dovette limitarsi a respirare, sopportando i lapislazzuli dentro agli occhi innescati dall'urto della nuca sull'intonaco consumato. «N-Non...» Salì invano sulle punte, sentendo troppo presto i piedi staccarsi da terra per costringere l'intero peso corporeo a gravare sull'incavo della sua mano, quella morsa d'acciaio che ne imbrigliava la laringe dimezzando all'istante l'afflusso di ossigeno.
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    Era la prima volta che la aggrediva.
    La prima volta che sostituiva in lei l'indifferenza col terrore cieco, sensazione che andò a dilatarle immediatamente le pupille e a spalancarle gli occhi, due gemme scure adesso aggrappate al suo volto con accorata disperazione. «Ti... prego...» Nient'altro che soffi intermezzati da rantoli, alterati da qualche contrazione delle gambe che cercavano appigli e dalle mani che affondavano le unghie nella carne del suo polso.
    Era la prima volta che lo supplicava.
    Aveva sempre creduto che fosse troppo attraente per farsi schiavo di quei tormenti interiori, aveva invidiato tutte le donne che potevano desiderarlo senza detestarlo, e in più di un'occasione aveva provato a focalizzarsi sulle curvature marmoree della sua muscolatura, nella solitudine delle carezze serali o insieme a qualche accompagnatore di passaggio. Ci aveva provato con tutta se stessa, Annabelle, eppure adesso annaspava in cerca d'aria addosso al muro del più squallido locale di tutta Hogsmeade. «Ero preoccupata... Guarda che ore sono.» Deglutì, o provò a farlo, sentendo le tempie avvampare nel vizioso ricircolo del poco sangue concesso all'apparato cerebrale. Era stanca, il parto avvenuto solo pochi mesi prima ancora la debilitava, e la paura sapeva giocare brutti scherzi a una mente in preda al panico: sarebbe svenuta da un momento all'altro, ne era certa.
    Era la prima volta che gli mentiva.
    La prima volta che sentiva di doverlo fare per salvarsi la vita. Non era stata certo la preoccupazione a farle attraversare la pioggia per riportarsi a casa un marito rovinato, ma che fosse troppo tardi per accettare di saperlo in giro a dispensare perdizione mentre lei si impegnava a tenere insieme i pezzi massacrati della loro famiglia, era fatto indubbio e incontestabile.
    Sentì l'ultima vertigine appesantirle le ciglia. «Tuo figlio ha bisogno di me...» Mormorò, talmente flebile da far credere che fosse già sull'orlo del limbo dell'incoscienza. «Non respiro.» Una constatazione più che una contestazione, quasi un via libera a se stessa per lasciarsi andare e, finalmente, riposare.

     
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    Potrebbe dare la colpa all'artiglio di drago, oppure alla frustrazione derivante dall'essere stato interrotto durante un momento tanto intimo. Potrebbe, ma non c'è alcun pensiero a dire il vero a riempire quegli occhi colmi di una furia omicida, mentre ancora le dita premono contro la gola troppo sottile di Annabelle. No, perché pensare significherebbe dover affrontare demoni troppo grandi per la fragile anima di Efrem, muniti di zanne tanto affilate da minacciare di squarciargli il cuore in mille pezzi. Deve nascondersi in quella rabbia che le riversa addosso per potersi nascondere dalla paura di quella che potrebbe rivolgere contro se stesso al solo accorgersi di quanto tempo sia stato in grado di perdere, di quante volte abbia nascosto se stesso per riuscire a sopravvivere a quel mondo che non è mai stato in grado di accettare la sua anima troppo fragile, troppo sporca e tormentata. Hanno gli occhi di un padre incapace di amare quei demoni, le mani di donne e di uomini ciechi alle sue grida d'aiuto mentre il corpo affonda in acque gelide e tuttavia incapaci di concedergli quell'eterno riposo che potrebbe almeno alleggerirlo dalla sofferenza di un'esistenza che non gli appartiene e mai gli apparterrà. Perché è dell'uomo freddo e spietato che la sua famiglia ha bisogno, è dell'orco che i suoi sottoposti sono portati a seguire gli ordini, del perfetto marito e padre di famiglia che gli viene richiesto di calarsi giorno dopo giorno la maschera sul volto sempre più emaciato dall'insoddisfazione. Non ha mai voluto nulla di tutto questo ed allo stesso modo non ha mai fatto nulla per fuggire, continuando a sperare in una morte che non ha mai ricercato tuttavia nella canna di una pistola premuta contro la tempia od in un'eccessiva dose di stupefacenti che potesse dimostrare una reale intenzione di farla finita. Forse una parte di lui continua ad aggrapparsi alla speranza che prima o poi quella vita inizierà a sembrargli
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    vera od è semplicemente la codardia a portarlo costantemente ad agitarsi in quel vuoto costante senza riuscire a liberarsene. Ma questa è una realtà ben lontana dal poter anche solo lontanamente essere presa in considerazione al momento, è un segreto indicibile, è la fine che ancora il Carrow non è in grado di fronteggiare. Ed il corpo fragile di Annabelle è di certo la via di fuga più sicura, ogni suo spasmo un motivo in più per continuare a premere contro di lei per punirla di colpe che non le appartengono. Non mi hai mai amato, non mi hai mai visto, non hai mai proteso le mani verso di me per salvarmi. Sei esattamente come loro. Ha osato tentare di insinuarsi e distruggere uno dei pochi momenti che Efrem concede a se stesso per abbandonare la maschera che indossa costantemente e questo basta per desiderare il suo sangue, forse addirittura la sua morte. Con le labbra arricciare dalla furia a scoprirne i denti rimane ad un soffio da quel volto sempre più paonazzo per via della mancanza d'aria, del tutto sordo ad ogni parola che gli viene rivolta, ad ogni possibile supplica o ragionevole scusa che la donna stia provando a sussurrare con voce strozzata. «E di cosa avrei bisogno io, Annabelle, per riuscire a non impazzire?!» Sta farneticando, riversandole addosso accuse che sembrano provenire dalle labbra di un ragazzino spaurito ed abbandonato per troppo tempo a se stesso da adulti indifferenti. Ma non c'è una risposta che possa donargli pace, non esisterebbe al mondo una sola parola in grado di curare le sue ferite anche se improvvisamente il corpo di sua moglie non cedesse all'incoscienza, lasciandolo nuovamente solo a fronteggiare sentimenti che non è più in grado di arginare. Basterebbe continuare a stringere per solo qualche minuto ed a quel punto... finirebbe ad Azkaban. No. Suo padre non lo permetterebbe, come è ovvio. Persino un omicidio del genere verrebbe insabbiato, Annabelle dipinta come una puttana adultera finita uccisa durante una delle sue scappatelle e lui come il povero marito affranto. Una risata folle gli scuote il petto, mentre allontana con uno scatto la mano da quel corpo ormai privo di coscienza, lasciandolo precipitare a terra mentre porta entrambe le mani alla testa per poter afferrare e tirare qualche ciocca dei lunghi capelli, fino a riempirsene le dita e sentire la testa formicolare dal dolore. Mentre un urlo disumano si sostituisce alle risate e lacrime bollenti rendono sfocata la stanza attorno a lui. Non c'è scampo, non c'è modo per lui di sfuggire a quella gabbia nel quale l'hanno rinchiuso dopo avergli strappato le ali dalla schiena ancora troppo giovane. «Basta, basta, basta...» Il corpo non può far altro che cedere a quel peso troppo grande da reggere, costringendolo a sedere sul pavimento a sua volta, a soli pochi centimetri da quel corpo che se ne rimane immobile e silente al suo fianco, incapace ancora una volta di fornirgli una sola parola di conforto, un solo gesto di gentilezza. Riesce a portare gli occhi su quel volto d'ambra solo dopo diversi minuti, quando ormai le lacrime hanno lasciato solchi bollenti sulle guance pallide ed il petto ha smesso di battergli nel petto all'impazzata. Quando non sono rimaste altro che ceneri, una nuova apatia a muovere ogni suo gesto mentre allunga due dita per cercare un battito che possa assicurargli che Annabelle sia ancora viva. A fatica torna ad alzarsi, le gambe ancora pesanti come macigni mentre afferra il corpo della mora per poterlo stringere tra le braccia, in quello che potrebbe forse sembrare ad occhi esterni un momento di tenerezza ma che serve unicamente ad assicurarsela al fianco per poter evitare che qualcuno si allarmi nel vederlo uscire da solo da quel privé dove ancora l'eco delle sue urla sembra rimbalzare tra le pareti anonime. Ne colpisce con qualche colpetto del palmo la guancia, cercando di riportarla alla realtà. «Forza. Riesci a camminare? Dobbiamo tornare a casa. Si è fatto tardi.» Il tono di voce è tornato ad essere modulato come sempre, i suoi occhi nuovamente due specchi che non riflettono alcun sentimento. Come se nulla fosse successo.
     
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    Annabelle CarrowMADRE È L'ALTRO NOME DI DIO SULLE LABBRA E SUI CUORI DI TUTTI I NOSTRI FIGLI.

    Aveva sempre creduto che fosse facile, morire.
    Si trascorrono vite intere a tentare di impedirlo, a tutelarsi e a difendersi, a brandire precauzioni e prudenza come fosse tremendamente semplice spegnere un battito cardiaco. Non lo è. Annabelle ne prese consapevolezza in quel preciso istante, quando la volontà di lasciarsi andare si ritrovò a dover lottare con la tenacia di un organismo battagliero, vittima di un respiro che sfidava la ristrettezza della trachea per conquistare una strada alternativa per i polmoni. Annaspava, si dibatteva e arrancava, ma qualcosa in lei si rifiutava di arrendersi, rivelando l'impossibilità di controllare un istinto di sopravvivenza capace di sconfiggere mostri e demoni con sfacciato despotismo: detestò il proprio spirito per essere tanto arrogante, Annabelle, adesso che morire non sembrava essere un affronto accettabile dalla propria coscienza.
    Non poté sentire il tonfo provocato dal proprio corpo, quando alla fine l'oblio inghiottì la veglia e il cervello si concesse una tregua, non poté giudicare la posizione sgraziata nella quale le si accasciarono le membra, né ebbe modo di sistemarsi le ciocche scure che le striarono di tenebra il volto per natura abbronzato. Sopperì semplicemente al black-out per un tempo che non avrebbe neppure saputo quantificare, naufraga errante di un naufragio sensoriale che la ubriacò di vertigini e stordì di alienazione.
    Aveva sempre creduto che fosse facile, morire, era la prima volta che riconosceva d'aver sbagliato.
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    Venne prima d'ogni altra cosa il formicolio sul volto, nient'altro che una sensazione là dove il palmo nudo del marito arrivava a sollecitarla. Difficile riconoscere quel tocco, impossibile attribuirvi un senso, ma la stimolazione corporea costrinse la mente ottenebrata a raggiungere una riva, strappata crudelmente a una marea capace di cullarla più di quanto non avesse mai fatto la vita. Sbatté piano le ciglia prima che gli occhi riuscissero a schiarirsi, mugugnò piano sentendo la gola in fiamme, ma ancor prima di poter recuperare contatto con la realtà sentì uno spasmo difensivo rianimarla d'allerta, in preda allo stesso panico che la aveva attanagliata pochi minuti prima negli ultimi attimi coscienti, costringendola a sussultare tra braccia che la stringevano senza alcuna tenerezza. "L-lasciami." Deglutì a ripetizione, tre o quattro volte, non riuscendo a scacciare il nodo al centro esatto della laringe, raccogliendo le poche energie che si rintracciò nella carne per divincolarsi dalla gabbia umana di cui aveva adottato il cognome. Riaffiorarono i ricordi e iniziò a diradarsi anche la nebbia, ma quell'assurda sensazione di terrore che non aveva mai creduto di poter provare al suo fianco parve paralizzarle l'anima nel profondo. Non l'aveva mai amato e qualche volta lo aveva detestato, ma non aveva mai creduto che lui potesse farle del male. «Non... avvicinarti, Efrem.» Barcollò appena indietreggiando, una mano dalle falangi tremanti che le scostava i capelli dal viso e l'altra che cercava sostegno sulla parete più vicina. «Non toccarmi mai più.» Esalò in un sussurro, flebile e intriso di delusione, fissando il suo volto nuovamente apatico senza riuscire a dimenticare la smorfia di collera che lo aveva deturpato. Non avrebbe saputo dire se lo odiò di più per aver tentato di ucciderla o per non averlo fatto del tutto, ma quella era una riflessione che non avrebbe potuto approfondire in quel momento, vicina all'alba di un nuovo giorno che non badava alle battaglie tra due coniugi maledetti.
    Che dovessero tornare a casa era vero, che fosse esageratamente tardi un'ulteriore verità, ma sarebbe gelato l'inferno prima che Annabelle sopperisse all'ennesima umiliazione di una notte da dimenticare. «Cammino da sola.» Avvicinò i lembi del colletto di una camicetta sgualcita, non aveva bisogno di specchiarsi per avvertire le striature livide sulla pelle, raddrizzò quindi la postura e fece l'unica cosa che i suoi genitori le avevano insegnato fin quasi all'eccellenza: finse. Simulò la disinvoltura che ci si aspettava da una Signora, esibì l'andatura più sicura che riuscì a riprodurre, e affiancò il marito sulla strada verso l'uscita evitando ogni sguardo circostante con minuzia chirurgica. Sapeva di dover attendere l'aria aperta per azzardare una smaterializzazione, ma dubitò di se stessa e delle proprie condizioni al punto di concedersi di sfiorare la spalla di lui con la punta delle dita, un tocco invisibile che gli avrebbe permesso di riportare entrambi a casa sventando il rischio di uno strappo proprio quando sarebbe stato inopportuno. Non avrebbe rivolto lui ulteriori attenzione fino all'approdo nell'ampio salone, dove il fuoco era ormai morto e la tenebra inghiottiva il profilo d'ogni mobile: lì si sarebbe tuttavia accasciata, raccolta dai cuscini troppo morbidi di un divano indifferente, pregando silenziosamente che tutto il mondo le sparisse dagli occhi. «I Signori gradiscono una tisana?» Sarebbe stata la voce di Bae a fendere il silenzio, mentre la più guardinga Ava si ergeva immobile sulla penombra del corridoio, osservando tacita la propria padrona già pronta a sgattaiolare in cerca d'aiuto se lo avesse reputato opportuno.


     
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    L'ingresso li accoglie silenzioso, immobile tra quelle parole che rimangono sospese tra loro in quegli attimi che sembrano appartenere ad una realtà sospesa nel tempo, od appartenente a tutt'altra vita rispetto a quella che hanno vissuto fino ad oggi. Non è certo mai stato un matrimonio d'amore il loro, eppure mai prima Efrem ha alzato su di lei un solo dito, mai le ha riversato addosso la propria rabbia con tanto impeto nel disperato quanto infantile tentativo di farsi vedere davvero - per tutto quello che nasconde abilmente sotto la maschera che è costretto ad indossare tutti i giorni - da quegli occhi di tenebra. I rimasugli dei deleteri effetti dell'artiglio del drago e del troppo alcool ingerito nel corso della serata continuano ad appesantirgli la mente al punto da rendergli difficile capire la gravità di quanto sia successo tra le mura del Clifford. Di accorgersi di quanto profondo sia lo strappo, di quanto abbia spinto contro quei limiti imposti da entrambi, minacciando di far crollare ogni cosa. Eppure oltre quella coltre di confusione nella quale si muove, qualcosa continua a sussurrargli all'orecchio che le cose non torneranno mai a come erano ieri. Non dopo quello che ha fatto.
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    Non riesce a guardare i lividi su quel collo dalla curvatura elegante, così come non riesce ad ammettere a se stesso del terrore scaturito non tanto dalla violenza fisica, quanto dalla fragilità con il quale si è mostrato a lei per la prima volta da quando si sono conosciuti. Un uomo vile ed impaurito, spaventato dalla vita stessa e dalla prospettiva di rimanerne imprigionato... un bambino piangente, del tutto diverso dal freddo e calcolatore uomo che Annabelle deve aver pensato di conoscere e con il quale ha acconsentito a condividere metà del talamo nuziale in nome di un matrimonio a stento definibile tiepido. Sono sempre stati vuoti e freddi come le stanze di quella casa arredata di finta intimità familiare, allo stesso modo sopportabili in cambio della sicurezza di poter contare su un riparo al quale poter fare ritorno e nel quale convincersi di poter trovare rifugio dalle tempeste più violente. Con un colpo di bacchetta Efrem cerca di scaldare l'ambiente accendendo le fiamme del camino situato davanti al divano su cui Annabelle si è stesa, rimanendo in piedi per il tempo necessario a sfilare dalle spalle il mantello e lanciarlo senza alcuna premura addosso alla minuta figura di Bae, soffocandone la vocina nasale e nascondendone l'espressione guardinga sotto la stoffa pesante. Odia rimanere da solo con Annabelle, quanto il pensiero che quella creatura li disturbi. «I Signori gradiscono una tisana?» « I signori gradiscono rimanere soli, ora. » Il Carrow può vedere l'esitazione riflessa in quegli occhi tondi, ma quello che le è stato rivolto è un ordine diretto a cui la sua stessa natura le impedisce di disobbedire, costringendo l'elfa ad un breve inchino prima di sparire alla vista con un sonoro schiocco delle dita ossute. Nuovamente soli. Con un respiro più profondo degli altri l'uomo si avvicina alla poltrona situata a metà strada tra il divano ed il camino, lasciandosi ricadere sulla seduta imbottita per dare sollievo ai nervi tesi dal nervosismo, mentre gli occhi cerulei scrutano nella direzione di quel corpo abbandonato tra i cuscini, silente ormai da troppo tempo per poter essere sicuro che non abbia ceduto ad un sonno che possa trascinarla lontana dal pensiero di aver sposato un mostro. Cedendo all'ennesimo capriccio della serata le dita guidano fino alle labbra socchiuse una sigaretta, accendendone la sommità con la bacchetta per poter godere della prima acre boccata di fumo. Un vizio, quello, che ha sempre cercato di tenere lontano dalle mura di casa... ma non sembra poi tanto importante ora come ora, quell'estenuante sforzo nel mantenere le apparenze. « Persino ora non riesci a rivolgermi un briciolo di sincerità, Annabelle? Non merito le tue urla o la tua rabbia, ma solo la tua indifferenza, davvero? » Non attende una risposta, non davvero, quasi si trattasse di un monologo quello che snocciola tra le labbra inaridite dalla tensione, mentre gli occhi si spostano e si perdono nell'osservare le sensuali fiamme intente a danzare nel camino. Più vive di quanto loro saranno mai. « Quando sei vicina, mi sento sempre così solo e miserabile. Così sporco
     
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    Annabelle CarrowMADRE È L'ALTRO NOME DI DIO SULLE LABBRA E SUI CUORI DI TUTTI I NOSTRI FIGLI.

    Quand'è che la casa era diventata così grande? Chi aveva deciso di costruire soffitti tanto alti e di privare le pareti di qualche angusto cantuccio in cui annidarsi a nascondersi? Era evidente, adesso, come persino l'architettura più concreta della sua vita fosse estranea alla sua prima abitante, a quella matrona che non era mai riuscita ad essere regina pur fingendo di sentirsi effettivamente padrona del proprio mondo. Peculiare, l'ascendente che può avere la sfera affettiva sulla complessità di un'esistenza intera: essere svalutati nell'intimo ritaglio della vita privata può causare la messa in dubbio persino dei successi più evidenti, e una toga da giudice non sembra bastare a dissimulare le lacerazioni sulla veste da notte né i lividi su un collo che non ha saputo arrendersi alla morte.
    Avvertiva dolore nella deglutizione, Annabelle, un grumo di cartilagine e sangue rappreso le strozzava la trachea ad ogni respiro, eppure resisteva ancora, incassando come un cadavere osservato dall'esterno l'arrivo degli avvoltoi su una carne già martoriata: rapaci personificati dalle parole dell'uomo che aveva sposato, ennesime accuse a conclusione di una punizione già inflitta.
    «Non hai avuto paura di uccidermi, non è vero?» Non riconobbe la voce che le uscì dalla gola, ma non ne interruppe le sillabe. «Si tirano le briglie di un cavallo quando un gatto attraversa la strada, si limitano persino le bastonate a un cane indisciplinato pur di non spezzargli la spina dorsale... ma non si esita quando si schiaccia uno scarafaggio. Si rimane freddi, si è quasi nauseati.» A stento si accorse delle fiamme risorte nel camino, eppure spense tra loro uno sguardo sul quale non battevano neppure più le ciglia, umido di lacrime mai versate e rosso di capillari esplosi per liberare il cervello dalla troppa circolazione. Si soffermò a riconoscersi incapace persino di concedersi un comprensibile attacco di panico, e non poté fare a meno di domandarsi tacitamente che cosa ci fosse in lei di sbagliato; le riflessioni che snocciolava, d'altro canto, non potevano che condurre a una conclusione rivoltante. «Sono questo anch'io, per te.» Un insetto, un nonnulla, e lo disse in un sottile soffio di fiato che servì a soffocare un intimidito singhiozzo, unica espressione dell'umiliazione che si sentiva addosso come una patina di resina, unticcia e fastidiosa, tuttavia incapace d'essere facilmente strofinata via.
    Proprio lei che impugnava ogni giorno le sorti di donne e uomini per i quali decideva innocenze e colpevolezze, appassiva adesso come basilico al sole, sopperendo all'insolazione di un'aggressione che le aveva spezzato l'anima ancor prima di deturparle la pelle.
    Avrebbe dovuto ammonirlo sul fumo, intimargli di non attentare alla salute di Alastor e rimproverargli tutta quella leggerezza che lei d'altro canto non si concede mai, eppure taceva, occhi vuoti nel vuoto di una stanza nebulosa, scomoda sulla morbidezza del divano perché sospesa a mezz'aria sul precipizio di una delle emozioni che non si era mai davvero preparata a provare: il terrore.
    «Qual è la colpa che non riesci a perdonarmi, Efrem?» Sentì la lingua affaticata nel tentativo di staccarsi dal palato per scandire quelle flebili parole, incrinate da una tensione elettrica quasi tangibile. «Che cosa ho fatto, per meritare il tuo odio?» Cristallina, tale era la spontanea curiosità di domande pronunciate quasi in trance, catatoniche nella piattezza di un tono monocorde che non riusciva a ravvivarsi di emozione alcuna. Spenta, così avrebbe potuto riconoscersi la Hallmoon più bella dell'albero genealogico, mentre le natiche ad abbandonare il damasco della seduta per trascinare la spettrale silhouette fino a lui, stravolta e stropicciata, improvvisamente più vecchia di qualche decennio.
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    Quasi senza vederlo si sarebbe lasciata ricadere lungo il fianco della poltrona, la schiena a strofinare sul tessuto fino a permetterle di trovar nuovo riposo direttamente sul pavimento, troppo stanca persino per sostenere il peso del suo stesso corpo. Vicina e marginale, gli avrebbe lasciato lo spazio per resistere al senso di oppressione pur dimostrandogli per la prima volta in assoluto la volontà di un avvicinamento. «Non hai mai voluto che io mi avvicinassi.» Avvertì l'assurdo desiderio di allungare una mano verso di lui, o verso l'idea che ancora conservava in qualche recesso della coscienza, distese allora il braccio destro verso l'angolo retto delle sue ginocchia, lasciandolo tuttavia ricadere in un pugno chiuso sulla moquette che ne ospitava il corpo rannicchiato. «Hai sempre voluto che vedessi solo il peggio di quello che sei.» Esalò, finalmente sincera in un confronto che non avrebbe potuto vantare di alcun vincitore.
    Non aveva mai preteso amore né si era detta disposta a donarne a lui, troppo presa dalla carriera e dalle avventure carnali aveva impedito a se stessa di fermarsi e indugiare, di smarrirsi nella pericolosità dei sentimenti, finendo in tal modo per rendersi cieca anche ai più intimi bisogni dell'uomo, di Efrem, un essere umano dalle fragilità inaudite che forse non aveva mai fatto altro che chiederle silenziosamente aiuto.
    Volse però il capo di lato, quasi potessero sentirsi anche senza guardarsi, almeno per una volta in tutta la loro vita insieme. «Hai mai pensato, anche solo una volta, a me come una moglie Non solo un'utero da riempire né un modello da esibire in società. «Ti è mai capitato di apprezzare un mio sorriso, uno sguardo, o la mia voce?» Sentì ancora la gola bruciare, un monito per smettere di avvicinarsi inesorabile a un fuoco che già l'aveva ferita, ma non si mosse neppure di un centimetro.

     
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    «Non hai avuto paura di uccidermi, non è vero? Si tirano le briglie di un cavallo quando un gatto attraversa la strada, si limitano persino le bastonate a un cane indisciplinato pur di non spezzargli la spina dorsale... ma non si esita quando si schiaccia uno scarafaggio. Si rimane freddi, si è quasi nauseati. Sono questo anch'io, per te.» Annabelle non è svenuta nuovamente, il sonno non è arrivato a proteggere la sua mente da quello che quella serata le ha gettato addosso. Che lui le ha stretto attorno alla gola. Le sue parole riempiono il salone nonostante siano a stento sussurrate, eppure Efrem le percepisce contro la pelle come punture d'insetti una sillaba dopo l'altra, a strisciare senza alcuna pietà fino ai meandri di quell'animo fragile che per così tanto tempo è riuscito a nascondere al mondo intero. Sono delle accuse fondate, è ovvio, ma che continuano a girare abilmente attorno al problema invece di affrontarlo. Non sono comunque abbastanza per convincerlo a distogliere lo sguardo dalle fiamme danzanti, lasciando che gli occhi seguano quelle lingue di fuoco per far nascere pigramente nella mente stremata il pericoloso quesito di come sarebbe sentirle lambire la carne fino ad annerirla, lasciando tempo al fuoco di consumare persino le ossa, cancellando ogni possibile traccia del suo passaggio su quella terra. Qualcuno piangerebbe per lui? La risposta al quesito è così scontata e penosa da disegnare un amaro sorriso sulle labbra solitamente tanto severe. Ha cercato così strenuamente di essere quello che gli altri si aspettavano che alla fine dei suoi giorni nessuno riuscirà a dire di conoscerlo davvero, di provare un affetto sincero nei suoi confronti. E non si è in grado di versare lacrime per chi non si conosce, questo è ovvio. Un'altra boccata di acre fumo scivola pigramente fuori dalle narici dilatate, facendolo assomigliare ad un essere scappato dall'inferno ed intento a nascondere le proprie corna affilate ed i propri zoccoli ai comuni mortali. Forse è davvero così, forse semplicemente non è questo il mondo a cui Efrem appartiene e da questo suo ostinarsi a camminare in vesti non proprie nasce ogni sofferenza. Dovrebbe solo concedersi modo di tornare all'inferno dal quale è scappato per poter ottenere la pace che tanto brama. «Qual è la colpa che non riesci a perdonarmi, Efrem? Che cosa ho fatto, per meritare il tuo odio?»
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    Non hai mai provato a vedermi, esattamente come tutti loro. Le parole rimangono sospese, immobili in una mente che non ha modo di trovare tuttavia il coraggio necessario a trasformare quel pensiero in parole che possano portare un po' di chiarezza all'anima di Annabelle, quella stessa anima che trema pericolosamente a fronte del vengo gelido che è arrivato ad insinuarsi tra le mura di quella casa che hanno sempre cercato di rendere un posto sicuro. Non esiste più un posto sicuro nel quale possano nascondersi, non mentre il rumore dei passi si avvicina alla poltrona su cui è seduto. « Non hai paura che possa provare ad ucciderti di nuovo, Belle? » La sua ombra entra nel campo visivo, costringendolo a voltare appena il capo per poter seguire con fare diffidente il morbido movimento con cui il corpo elegante trova appoggio contro il bracciolo della seduta, scivolando fino al pavimento. Come un animale ferito, incapace di non leggere una minaccia nella mano che viene allungata verso di lui, si ritrova a cercare un qualsiasi cenno di minaccia in quella che tuttavia appare come solo la richiesta di un corpo fin troppo stremato. «Non hai mai voluto che io mi avvicinassi. Hai sempre voluto che vedessi solo il peggio di quello che sei.» Una mano arriva a scostare dal volto arrossato dall'eccessiva vicinanza con il fuoco qualche ciocca dei capelli corvini, un attimo prima che le dita lancino tra quelle stesse fiamme la cicca della sigaretta ormai consumata fino al filtro. Un silenzio che dura abbastanza da far credere che non abbia intenzione di risponderle, ancora una volta. «Hai mai pensato, anche solo una volta, a me come una moglie? Ti è mai capitato di apprezzare un mio sorriso, uno sguardo, o la mia voce?» La lingua schiocca rumorosamente contro il palato arido, producendo un suono secco che sembra voler interrompere quella serie di domande che rischiano di trascinare entrambi su un terreno fin troppo instabile. Eppure il corpo massiccio contro ogni previsione scivola giù dalla poltrona, raggiungendo quello stesso pavimento su cui Annabelle ha preso posto. Siede accanto a lei, senza ancora rivolgerle lo sguardo. « Quello che hai visto non è altro che il meglio che sono riuscito a costruire... e se pensi che questo sia il peggio di quel che sono, allora non ti consiglio in alcun modo di spiare oltre la superficie. Troveresti un uomo fragile e spaventato che proverà ad attaccare chiunque cerchi di avvicinarsi per paura di essere nuovamente messo alla gogna per i suoi desideri. » La risata che agita appena il petto non porta con sé alcuna traccia di allegria. Solo un'amarezza così grande da risultare soffocante. « È quello che è successo stasera. Ti sei avvicinata troppo ed ho pensato unicamente... di dovermi difendere da te. Perché sei una sconosciuta, Annabelle, come io sono uno sconosciuto per te. » La mano si solleva, fino a raggiungere nuovamente la curva elegante di quel collo macchiato dalle sue stesse dita. Ne carezza i lividi con una calma che riflette la sconfitta scritta negli occhi di entrambi, mentre gli occhi cerulei cercano quelli di tenebra di sua moglie. « E come si può apprezzare il sorriso di chi non si conosce? Hai mai rivolto un sorriso sincero verso di me, felice di vedermi? » Un sopracciglio scuro si alza, sfidandola sommessamente a mentire davanti ad una domanda dalla risposta tanto scontata. Mentre le dita scivolano lungo quel corpo che ha posseduto poche volte, freddamente, unicamente per dovere e mai per piacere. Ma se questa sera Annabelle richiede la verità, allora forse questo è il massimo a cui entrambi potrebbero ambire. I polpastrelli ridisegnano la morbida curva dei seni ancora appesantiti dal latte materno, fino a scivolare fino al ventre e più giù, all'orlo dell'elegante gonna sotto alla quale è fin troppo facile infilarsi. Il palmo della mano risale lungo la pelle nuda della sua gamba per quella che sembra un'eternità, dandole tutto il modo di fermarlo in qualsiasi momento dallo stringere le dita contro la sua carne. « Scapperai via, Belle, da quest'uomo fragile e spaventato? »
     
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    Annabelle CarrowMADRE È L'ALTRO NOME DI DIO SULLE LABBRA E SUI CUORI DI TUTTI I NOSTRI FIGLI.

    Che avesse paura di lui glielo si leggeva in volto, nel pallido esangue di lineamenti stropicciati e stremati, nel rapido guizzare di pupille dilatate d'allerta, e anche nel battito accelerato dell'adrenalina necessaria eventualmente alla fuga; si ostinava a sopravvivere, il corpo di Belle, nonostante la sua mente fosse ferma nell'inerzia della sconfitta in qualche angolo astrale remoto e irraggiungibile. «Ne sono terrorizzata.» Confermò alla sua domanda, nuda persino delle sovrastrutture di orgoglio e dignità con le quali solitamente si agghindava, poiché lontana ormai dai bisogni che ogni giorno la costringevano a bramare l'affermazione della propria emancipazione. Che cosa poteva farsene dell'emancipazione, adesso, con i lividi sul collo e una vita ridotta a brandelli?
    Eppure non si mosse, e immobile l'avrebbe percepita anche Efrem nonostante l'antisonanza della confessione appena bisbigliata, preda consapevole e per questo innaturale, sbeffeggiava il normale scorrere della violenza per vincerla con la dissociazione. Non si mosse neppure quando lo sentì volgerle finalmente l'attenzione, una soltanto, concentrata in una domanda per lui retorica che vantava invece di una perla segreta nella coscienza di lei. «Hai mai rivolto un sorriso sincero verso di me, felice di vedermi?» Dischiuse le labbra per umettarsele cautamente, espirando come se non lo facesse da ore intere per poi concedere agli occhi il sollievo di un battito di ciglia. Avrebbe voluto avere una risposta diversa, avrebbe anche potuto mentire, la voce che emerge dalla gola irritata svelò invece una verità impregnata a fondo dalla tristezza. «Una volta, così tanto tempo fa, quando abbiamo condiviso il letto per la prima volta.» Accovacciata come una vecchia bambola ai piedi di un divano che rappresentava tutta l'ipocrisia di quella casa, Annabelle sganciò i cardini dello scrigno che occultava tutte le proprie debolezze, permettendo al ricordo di quel frammento di passato di riaffiorarle dapprima negli occhi e subito dopo sulle labbra, tinto di malinconia e scolpito nell'umiliazione. «Avevo preteso dalle sarte una camicia da notte della seta più pregiata, avevo spazzolato i capelli non meno di cento volte e massaggiato ogni lembo di pelle con olio di mandorla... Avevo il cuore in gola, volevo solo la tua approvazione, volevo che mi desiderassi Non c'era bisogno di delineare la cronologia della reminiscenza, era invero stata l'unica occasione in cui avesse mostrato al consorte la parte più umana di sé, una femminilità fragile in cerca di spalle più forti, tutto ciò che nella carriera e in famiglia la Hallmoon era sempre stata costretta a sopprimere. Sollevò gli occhi solo quando lo sentì ritornare sul collo leso, là dove Efrem l'avrebbe facilmente sentita tremare come una foglia. «Te la ricordi, la prima notte di nozze?» Nessuna arroganza a sostenergli lo sguardo, solo arrendevolezza e perdono, per lui e per se stessa. «Certo che no, non eri lì, i tuoi occhi mi evitavano, la tua mente era altrove. Io invece ti ho guardato per tutto il tempo.» Gli aveva offerto il sangue della propria verginità strozzandosi il dolore tra i denti, affondati nella carne del labbro inferiore fino a farlo sanguinare: niente di cui lui potesse essersi accorto, disinteressato a baciarla quanto e più di quanto si era dimostrato esserlo nel considerarla parte attiva dell'atto dovuto. Lo aveva sentito riempirla e aveva desiderato essere stretta da quelle braccia tanto nervose, solo per essere abbandonata sul lato destro del letto senza neppure la premura di un lenzuolo ritirato a coprirne le vergogne. Non glielo aveva mai perdonato, e forse da quel giorno era iniziata la sua personale guerra alla riconquista della dignità. «Da quel momento ho promesso a me stessa che non avrei più concesso brividi a chi non fosse disposto a volermi Confessarlo adesso lo rendeva in qualche modo più accettabile, riconoscibile e gestibile, eppure Belle non smetteva di tremare. «Allora ti ho odiato, non hai idea di quanto ti abbia odiato.» Gli incastrò quella verità negli occhi senza temerne le conseguenze, solo perché consapevole che riconoscerlo fosse piuttosto un dono che l'altro avrebbe reputato più funzionale di quanto potesse fare una persona più assennata.
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    Fu solo quando lo sentì scivolarle addosso che trasalì, riappropriandosi del controllo su una carne che sapeva essere tutela e istinto in percentuali squilibrate, e che non poté fare a meno di surriscaldarsi al lento avanzare una mano che la accarezzava forse per la prima volta. Non lo fermò, ma neppure lo subì, sollevò piuttosto il mento per riempirgli la visuale della propria identità affinché non finisse per essere ancora una volta solo un corpo sfumato d'anonimato, e quando rispose lo fece con il battito cardiaco appena accelerato. «Non voglio più farlo, sono stanca di scappare da te.» Avrebbe invece dischiuso le ginocchia, contraendo l'addome per staccare le mani dal pavimento e condursele sulla scollatura di una camicetta che non esitò a sbottonare, e poi oltre sulla severità di un reggiseno che venne sganciato con inconsapevole sensualità. Ricordava la desistenza con cui aveva in ogni modo evitato di denudarsi negli ultimi amplessi condivisi, quelli utili al concepimento di Alastor e mai a conciliare alcuna intesa coniugale; in via del tutto opposta, adesso, si soffermava ad offrirgli curve e pelle cosicché la riconoscesse come donna, scoprisse il minuscolo neo sull'internocoscia sinistro e le tre smagliature lasciate dalla gravidanza sul bassoventre destro. Gli restituiva a propria volta le sue debolezze, affinché gli fosse chiaro quanto non sarebbe mai stata lei il reale pericolo da cui fuggire, nonostante tutto, nonostante tutti. «Guardami, mi vedi?» Cadevano gli abiti a svelare alle sue carezze la strada di una pelle nuda, l'ambra del camino ad accentuare la naturale abbronzatura del suo incarnato ed i palmi tornati adesso a sostenere il busto sul tappeto persiano che li riscaldava dal basso. Fosse stato anche solo per una notte, gli permise di concedere ad entrambi una tregua, la più curativa a cui entrambi potessero ambire.

     
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    «Una volta, così tanto tempo fa, quando abbiamo condiviso il letto per la prima volta. Avevo preteso dalle sarte una camicia da notte della seta più pregiata, avevo spazzolato i capelli non meno di cento volte e massaggiato ogni lembo di pelle con olio di mandorla... Avevo il cuore in gola, volevo solo la tua approvazione, volevo che mi desiderassi. Te la ricordi, la prima notte di nozze? Certo che no, non eri lì, i tuoi occhi mi evitavano, la tua mente era altrove. Io invece ti ho guardato per tutto il tempo.» Un sopracciglio scuro si solleva sul volto di Efrem, quasi quelle parole pronte a scivolare tra loro siano prive di un qualsiasi filo logico alle sue orecchie. Che il pensiero che Annabelle abbia desiderato la sua attenzione, un tocco gentile ed attento da parte sua sia incomprensibile e del tutto distaccata dalla visione della realtà in cui il Carrow si è sempre mosso. L'infanzia ed il modo in cui è stato cresciuto l'hanno infondo portato ad essere sopra ogni cosa egoista, così da poter sopravvivere e preservarsi a fronte di tutte le minacce esterne e dello spietato giudizio familiare, finendo con il prestare sempre e solo unicamente attenzione ai propri sentimenti, convincendosi alla fin fine di essere uno dei pochi a poter nascondere tanto egregiamente le emozioni dietro una patina di perfetta indifferenza. Il pensiero di condividere tale destino con qualcun altro gli pare impossibile, cogliendolo del tutto impreparato ed arrestando per qualche secondo persino la lenta avanzata di quella mano che sta risalendo lentamente la gamba ambrata di Annabelle. «Da quel momento ho promesso a me stessa che non avrei più concesso brividi a chi non fosse disposto a volermi. Allora ti ho odiato, non hai idea di quanto ti abbia odiato.» Efrem si ritrova a stringere istintivamente di più le dita contro quella carne che ora trema, esposta da ognuna di quelle confessioni come mai nessuno spogliarsi dei semplici vestiti potrebbe fare. E riesce quasi a vedere davvero Annabelle, seppur di sfuggita tra le ombre proiettate nella stanza dalle lingue di fuoco che danzano nel caminetto. È bella, eppure così stanca da sembrare sul punto di arrendersi. Le labbra carnose non mostrano gentilezza, eppure sembra solo un gesto sincero che gli occhi di onice sembrano pretendere da lui. Non vuole il suo amore, ma solo che per una volta sia lì al suo fianco. Davvero. Ed è ora la sua pelle che Efrem avverte sotto le dita, sentendone per la prima volta la consistenza contro i polpastrelli e ricercandone lentamente il calore man mano che il corpo massiccio si sporge verso di lei, fino a poggiare le labbra socchiuse proprio in corrispondenza di quei segni violacei che le sue stesse dita hanno lasciato sul collo della donna. Ne saggia il sapore contro la punta della lingua, ancora in attesa della sua risposta a quella folle proposta che potrebbe trascinarla dritta nel suo personale inferno. Le lascia quell'ultima possibilità per scappare via prima che sia troppo tardi. «Non voglio più farlo, sono stanca di scappare da te.»
    « Pensavo avessi paura di me, Belle. Sei sicura che sia questa la tua risposta? » Prima ancora di poter trovare una risposta nelle sue parole, sono i gesti della mora a rivelare la convinzione celata dietro le ciglia scure mentre le mani affusolate si muovono per far cadere uno dopo l'altro i pezzi di quelle vesti che l'hanno coperta dal freddo della notte senza tuttavia riuscire a ripararla anche dal gelido vento soffiato verso di lei da Efrem in persona. La camicia, il reggiseno, l'ampia gonna. Gli rimane davanti con solo gli slip dal taglio elegante, senza più nascondersi in alcun modo da quegli occhi che le scavano addosso in cerca di tutti quei dettagli che rendano reale quell'inaspettata visione. Un basso sbuffo di risata scivola tra le labbra schiuse, roco e ben poco rassicurante, mentre il corpo reagisce prontamente a quella visione con un calore che dal basso ventre sembra risalirgli fino allo stomaco. « Lo prenderò per un sì. » «Guardami, mi vedi?» La lingua percorre lentamente il profilo del labbro inferiore, parzialmente nascosto dalla folta barba. Non basterebbe ora risponderle di sì, non quando lei stessa ha avuto modo di poter osservare quelle labbra muoversi per formulare fin troppe bugie. Lascia allora che siano le sue mani a parlare, che sia la sua bocca a raccontarle di come ci stia provando a rimanere al suo fianco per la durata di una sola notte. E fa paura, ma i brividi che percorrono ora la pelle del Carrow non sono riconducibili unicamente al timore. La mano rimasta inerme al suo fianco fino a questo momento si solleva per poter scivolare lungo la curva della schiena nuda, guidandola nuovamente a stendere contro quel pavimento gelido mentre si inginocchia tra le sue gambe schiuse. Dal basso la guarda, come lei richiede, senza interrompere quel contatto anche quando la scia di baci lasciata contro il ventre morbido guida i fili di ispida barba a sfregare contro la stoffa di quegli slip un attimo prima che le dita ne spostino di lato l'ingombro. « Guardami. » Fa eco alle parole pronunciate da Belle, prima di annullare ogni distanza tra la propria bocca e quella carne umida e calda, sul quale fa prontamente scivolare la lingua per raggiungere il suo punto più sensibile mentre il naso strofina appena contro di lei in un gesto che ha del ferino. Mentre la saggia con le labbra già inumidite dal suo sapore e le dita premono contro i fianchi, trascinandola ancora più vicina con uno strattone deciso. Senza più alcuna possibilità di fuggire.
     
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    Annabelle CarrowMADRE È L'ALTRO NOME DI DIO SULLE LABBRA E SUI CUORI DI TUTTI I NOSTRI FIGLI.

    C'era stato un tempo in cui Annabelle Hallmoon era la nubile più ambita dei suoi anni di giovinezza: la pelle olivastra e il naturale ebano dei capelli dovevano certo aver fatto la loro parte - avrebbe giurato d'aver visto spesso qualche cugina immergere di nascosto la propria chioma in qualche tintura naturale - ma era immaginabile che vi fosse ben altro ad ammaliare tutti quei contendenti scartati dalla lista prioritaria a vantaggio dell'unico uomo che non la desiderava. Era il tumulto, quell'eterna battaglia negli occhi, la malinconia di un animo che deve aver già cavalcato mille guerre per poter lasciarsi scalfire da rose rosse e lusinghe.
    Annabelle era inarrivabile, e proprio per questo tremendamente desiderabile.
    Chi si chiedesse se fosse dunque quella la prima volta, per lei, in cui chinava il capo alle attenzioni d'altri per desiderio consapevole e non in nome di una recita vantaggiosa, avrebbe ricevuto invero risposta affermativa: non l'aveva mai corteggiata neppure con un papavero selvatico, Efrem, eppure otteneva adesso quel che decine di coetanei avevano potuto ottenere solo nei sogni più intimi.
    «Non mi ucciderai.»
    Era quella la sua risposta, eppure aveva ancora paura di lui.
    Era atterrita, sconvolta e paralizzata, le metastasi del trauma appena subito le si erano abilmente incastrate sottopelle come schegge inamovibili, eppure nel proferire quella certezza non peccò di arroganza, si armò piuttosto della sicurezza che serviva a se stessa per sopravvivere. Non sarebbe stato difficile comprenderlo, per lui, quanto di necessario ci fosse in quella convinzione, così come altrettanto semplice sarebbe stato scovare la scia del sospiro innescato vilemente dalle sue labbra, un languore proibito che sfuggì al controllo della ragione con una punta accesa di vergogna. Sentiva il corpo reagire nonostante l'immobilità della mente, avvertiva il graduale surriscaldamento di una carne che non intendeva negare più i bisogni animali, e forse stanco di rifiutare la condivisione del talamo con l'unica persona al mondo che avrebbe dovuto ammettervi, fu quello stesso corpo a capitolare disteso a terra, scosso appena da un brivido di folle brama.
    «...Dio, Efrem!» Salì a premersi il palmo della mano destra sulle labbra quando si riconobbe in gola una voce troppo alta, sporca della libidine che venne fuori come un geyser dal primo contatto della bocca del Carrow con i lembi sensibili del suo calore di donna. Una premura, quella, ricevuta sempre e solo da chi del loro nome non poteva neppure dirsi degno. Non chiuse gli occhi, non si negò lo spettacolo speculare che intanto concedeva anche a lui, ma inarcò maggiormente la schiena in un languido contorcersi che voleva permetterle di sopportare meglio la dolce tortura. Sentiva il fiato abbandonare la strada della regolarità, il primo sipario di rugiada farsi più intenso sull'area divorata dalla sua lingua, e troppo presto percepì chiaramente il pericoloso intensificarsi di pulsazioni che l'avrebbero spinta giù dal baratro della perdizione.
    Lo spinse via come poté, allora, senza allontanarlo ma piuttosto battagliando con la mole incombente del suo corpo, croce e delizia di una voglia che aveva già provato ad ucciderla. Avrebbe cercato di spingerlo di lato, costretto ad impattare con la schiena al suolo come lei poco prima, e se fosse riuscita nell'intento non avrebbe esitato ad azzardare un colpo di reni che la portasse sopra di lui, a cavalcioni su un corpo ancora troppo vestito in confronto alla nudità che l'avrebbe ora sovrastato.
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    «Desiderami.» Non una supplica, quasi piuttosto un invito, scandito mentre le mani si impegnavano nell'essenzialità dei gesti che lo avrebbero privato dalla costrizione sul cavallo dei pantaloni. «Va' con tutti loro, consuma ogni corpo e concediti ogni perversione...» Non avrebbe mai preteso fedeltà da colui che per primo non ne riceveva, ma sapeva di poter ottenere qualcosa di ancor più sacro: il rispetto. Risalì allora ad occuparsi dei bottoni della camicia, paziente come chi aspetta da tutta la vita, ostinata a non rinunciare alla sua totalità, quella scultura marmorea che tante mani accarezzavano quando lei non guardava. Forse meglio, forse no. «...ma poi torna a casa e desidera solo me Che sguinzagliasse pure i suoi demoni al mondo, li lasciasse depredare e divorare, ma che permettesse poi a lei di ricucire le ferite e riportare a casa le salme dei caduti.
    Chinò allora il busto in avanti, non tanto per negargli la vista del proprio corpo quanto più per riempirgli il campo visivo con l'intensità del proprio sguardo. Era il primo vero giuramento che pretendeva da lui, nessun funzionario civile ad officiare la cerimonia né testimoni pronti a firmare gli atti: solo loro due, le rispettive coscienze e il male che si erano fatti, un corteo più che sufficiente.
    «Lasciami essere tua moglie.»
    Sussurrandolo, avrebbe insinuato sensualmente una mano tra i due corpi, ricercato il turgore della sua virilità e con la stessa disinvoltura offerto una strada verso il nido più caldo tra le proprie gambe. Proprio mentre gli offriva libero accesso anche alla sua anima.

     
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