Rosso fuoco

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    Quando le luci a neon rimbalzano sulla pelle del Sol Levante, avviene l'eclissi più peculiare. In risalto solo per gli occhi ammandorlati e le labbra tinte di borgogna, il volto di Nana spiccava nella melma umana del pub per immobilità e disgusto, un fermoimmagine immune persino alle spallate e agli scusa, permesso di passaggio. La realtà le scivolava addosso come olio caldo, la rilassava senza invaderla, stordente e anestetizzante come l'ansiolitico più efficace, e Nana dall'esile concentrazione di un corpo minuto non poteva che subirla con la consapevolezza di un masochista, infliggendosela senza pentimento all'unico scopo di mimetizzarvisi all'interno. Corpo in mezzo ai corpi, era il nascondiglio ideale. Seguendo la traiettoria delle due gemme dal castano esageratamente scuro, si approdava direttamente sulla silhouette di una giovanissima ospite giunta sul posto prima di lei, difficile dire se da troppo o poco tempo, certo era che a differenza della Yamakazi aveva già guadagnato l'occhio del ciclone, sfiorata dai baluginii intermittenti dei faretti rotanti e accarezzata dal rigido pompare di casse inflazionate di bassi. «Ehi splendore, bevi qualcosa?» Saltò una corda dal violino intonato delle diapositive che le scorrevano davanti, costringendola ad abbassare le lunghe ciglia su un disturbo che si sarebbe più volentieri risparmiata; inclinato il collo di appena trentacinque gradi a destra, liberò le ultime due vertebre cervicali con uno scrocchio impossibile da udire in quel chaos elettronico, ma utile piuttosto a regalarle scioltezza quando tornò ad aprire gli occhi per ritrovare il bersaglio intercettato prima. Neppure un'occhiata al disturbatore affianco, costretto ad incassare un'indifferenza a dir poco assordante che l'avrebbe convinto presto a desistere da ogni ulteriore tentativo. Pulsava intorno alla giapponese un'aura innegabilmente sinistra, energia invisibile che rendeva i suoi occhi troppo scuri e le sue spalle troppo immobili per reputarla adatta all'ambiente che riempiva, e l'altro dovette accorgersene quando si strozzò tra i denti un'imprecazione passando oltre, armato di due cocktail che avrebbe rifilato alla prossima preda intercettata. Si mosse quando la musica svanì, La Reietta d'Oriente, più tenue di qualche ottava e funzionale a vantaggio di un discreto svuotamento della pista da ballo - arrogante persino definirla tale anziché riconoscerla come stalla per cacciatori ormonali - spazio più facilmente percorribile dagli stivaletti dal tacco largo che la spinsero più avanti, un passo dietro l'altro, allineati con la sinuosità di un'odalisca, misurati alla perfezione affinché non eccedessero né si risparmiassero, quando la condussero finalmente nell'orbita gravitazionale di uno dei cardini più solidi della propria fortificazione: Fujiko Yamazaki era il prologo di una delle tragedie più sanguinarie della storia della criminalità organizzata, una profezia di morta diluita d'occidente in lineamenti e tratti che non rassomigliavano abbastanza a colei che ne condivideva il nome e buona parte del sangue. «Non piace neanche a me.» Le avrebbe sfiorato una spalla con due dita e l'orecchio con la voce bassa dall'inglese impeccabile, calda nel tono ma non tenue nel volume, costretta dalle caotiche circostanze a sovrastare i battiti della techno. «La musica, non piace neanche a me.» Avrebbe continuato, se e quando avesse ottenuto la sua attenzione foss'anche per un unico sguardo sfuggevole, lasciandole il tempo di ambientarsi nel profumo d'orchidea e nell'insistenza di occhi che cercavano per trovare, senza tuttavia lasciarsi possedere. Soffermarsi a riflettere sul fatto che Fujiko fosse la prima estensione della famiglia alla deriva con la quale si trovava ad interfacciarsi dalla partenza di Satoru, d'altronde, era un impegno troppo grande per una serata ancora intrisa di jet lag e diffidenza; avrebbe avuto tempo e modo per tirare le somme delle proprie intenzioni, ma adesso che la versione corporea di una delle pedine più ambite della propria scacchiera le si rivelava di fronte, concreta e dipinta da pennelli di un fascino consumato, Nana convenne con la coscienza in merito all'accettabile ritardo di tutte quelle manovre affaticanti e grette di cui nessuna delle due pareva aver bisogno. Non quella sera, non prima della lucidità dell'alba successiva. «Io dico che hai bisogno di una compagnia migliore.» Sfacciata, audace, diametralmente opposta alla disciplina impartitale da ragazzina, la Yamakazi riempì i panni di una ribellione più appagante che utile, sfidando anche la possibilità di impattare contro un muro di disinteresse al solo scopo di masticare vita direttamente sulle papille. Neppure uno sguardo all'effettiva compagnia a cui faceva riferimento, non poteva neppure essere certa che ce ne fosse una, quel che la cugina avrebbe rintracciato sul volto ermetico dell'altra non sarebbe stato più di una persuadente determinazione. Solo a quel punto la mancina sarebbe scivolata verso la pochette in pelle di cobra del Sahara, un intangibile click a permetterle con la destra di estrarre un pacchetto già aperto di Dunhill rosse, rettangolo di carta che incastrò tra indice e medio per condurselo all'altezza del volto, là dove avrebbe potuto catturare eloquentemente l'attenzione altrui. «Offro io.» Poche parole, un cenno del capo verso un balconcino intravisto sulla balconata superiore, e tutta l'intenzione di scomparire nella folla per raggiungerlo, senza mai voltarsi neppure una volta a controllare quanto potesse essere stata convincente. Respirare vita, per Nana, significava anche apprezzare i piccoli colpi di scena.
     
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    È quando sente di avere i nervi irrimediabilmente logorati, pronti a tendersi per l'ultima volta prima di strapparsi definitivamente, che la giovane Yamazaki cerca rifugio nell'occhio del ciclone, lì dove la musica è troppo forte perfino per poter percepire un accenno di pensiero che sia di troppo, che ne destabilizzi quella sensazione di permeata tranquillità sensoriale. Ha questo potere su di lei, la musica, riesce a calmarla, riesce ad ammansirla, riesce a riempire e colmare i vuoti profondi che le si sono andati creando dentro per via di quell'assenza diventata ormai una presenza scomoda, un pensiero fisso che si portava dietro costantemente. E aveva sorriso quando Abel Diggory in persona l'aveva fatta convocare per comunicarle il permesso che le era stato concesso per motivi famigliari, quelli stessi che si erano rivelati essere passare un'ora e mezza davanti ad Auror, a rispondere di un padre che non vedeva da più di sei anni e che a quanto pare aveva violato le regole del programma protezione testimoni non presentandosi al contatto serale, come di consueto. « Non ho idea di dove possa essere. » « L'ultimo contatto è avvenuto nel 2019, in tribunale, in sede di divorzio. » « Non mi ha mai contattata, no, non l'ha fatto nemmeno con mio fratello. Sì, ne sono sicura. Molto sicura. » È uscita da quel colloquio stremata, prosciugata e con un intenso bisogno di piangere, di spaccare qualsiasi cosa le capitasse sotto mano, di menare qualcuno. Anche solo una di queste cose le sarebbe andato bene, ma alla fine le lacrime non erano scese, le cose che le erano capitate a tiro non avevano soddisfatto la sua necessità di distruzione e si era trattenuta dal trattare male persino sua madre, chiudendosi in uno dei suoi soliti silenzi selettivi, che aveva rotto solo per chiedere al fratello come stesse, dopo essere uscito a sua volta dal colloquio. Dopo quello, il nulla. Il vuoto cosmico che le si è andato creando dentro. O in verità, che le si è riaperto dentro. Come un fottuto buco nero che, da sei anni, risucchia tutto, ogni qualvolta si costringe a pensarlo. E come qualsiasi altra volta, non potendo fare altro, non potendolo vedere né sentire, essendo lui il solo a poterla consolare, alla fine Fujiko scappa. Fugge da quell'ansia che le risale i nervi, richiedendo la sua più totale attenzione, con un macigno a gravarle sul petto e il fiato sempre più corto, prossima all'ennesimo attacco di panico dal quale non sa come riemergere. Forse basterebbe soltanto avere un contatto con suo padre, le servirebbe soltanto di saperlo al sicuro, di sentirlo dirle di non preoccuparsi perché ha saltato il contatto solo perché, troppo stanco dal nuovo lavoro, si è addormentato sul divano. Cerca di figurarselo mentre balla, inghiottita dalla folla che le sbatte contro, con le braccia alzate al soffitto mentre ha un paio di drink di troppo a scorrerle nel sangue. Tenta con tutta se stessa di riordinare i propri ricordi, di vederlo nella propria testa senza il bisogno di utilizzare una foto per poter far tornare vividi quei lineamenti. È quando non ci riesce, quando ancora una volta quella particolare sfumatura della sua voce non riecheggia più naturalmente tra i suoi pensieri, che sente il bisogno impellente di calarsi qualcosa. E allora le palpebre si aprono di scatto, gli occhi gialli, malinconici e stanchi, si perdono tra la folla, alla ricerca di un tipo qualunque, dall'aspetto abbastanza losco da darle l'idea di poter vendere droga. Meglio se una donna, dalla quale poter sottrare qualche minuto per un giro in bagno e la soddisfazione momentanea di un desiderio sbagliato, che possa mettere a tacere quel reale senso di nulla che la fa stare così male da sembrare quasi di non poter più respirare. «Non piace neanche a me. La musica, non piace neanche a me.» Rabbrividisce nel sentire una voce strisciarle sotto pelle da dietro. Si ritrova ad inclinare la testa appena di lato per poter lanciare un'occhiata fugace alla ragazza che ha deciso di approcciarla, con le carezze della dita e quelle delle parole. Un sorrisetto obliquo le si profila sulle labbra carnose, lì dove un rossetto viola scuro sosta ancora alla perfezione dopo più di tre drink. « Cosa ti fa credere che a me non piaccia? » Le domanda allora, sovrastandola quella musica il cui genere poco le importa, non quando a servirle è il volume alto, talmente assordante e incalzante da mutare il mondo intero. «Io dico che hai bisogno di una compagnia migliore.» Il sopracciglio destro si inarca, spudoratamente, mentre si volta verso di lei, gli occhi da gatto che non fanno nulla per rendersi quanto più discreti possibili mentre la squadra da capo a piedi. La guancia le si gonfia mentre le labbra si storcono appena di lato, in un sorrisetto che non ha volutamente nulla di criptico, di misterioso, d'intangibile, non quando i desideri per la serata le si concretizzano sotto gli occhi vestendo le sembianze di quella ragazza dai capelli scuri, lucidi e apparentemente setosi, e gli occhi a mandorla che insieme alla fragranza fresca le ricorda casa. Una distrazione che Fujiko non può farsi sfuggire, neanche quando l'altra gioca a fare l'enigmatica, lasciandole intuire a quale compagnia si stia riferendo una volta svelato il pacchetto di sigarette. «Offro io.» Le indica il balconcino prima di scomparire via, veloce com'è arrivata, come un'apparizione fugace, messa di fronte ai suoi occhi soltanto per compiacerla. O forse ingannarla. Una o l'altra, alla piccola Yamazaki poco importa e per questo motivo, con la coda dell'occhio fisso sui movimenti dell'altra, decide di non seguirla ma di camminare perpendicolarmente, lasciandosi toccare dalla calca che, sudata, ancora balla, senza freni, a ritmo con quella musica che riprende a martellare, guadagnandosi i battiti accelerati della mora. Continua ad attraversare la sala camminando ai limiti, risalendo poi la balconata dalla scala secondaria. Aspetta, un po' in disparte, sovrastata e coperta da alte figure che ballano, che bevono, che ridono mentre lei si ritrova a lasciare crogiolare la misteriosa ragazza nell'attesa di un rifiuto che sembra consolidarsi man mano che i secondi passano. E alla fine le si fa vicino, camminando di soppiatto così come la disciplina di Akira Yamazaki le ha insegnato a fare. Sta per approcciarla verbalmente, apparendo al suo fianco, quando è un ragazzo, di qualche spanna più basso di lei e rozzo, a tagliarle la strada. « Guarda, guarda, due cinesi al prezzo di una. » Sbatte gli occhi, Fujiko, per cercare di snebbiare la mente, perché deve essere per forza colpa dell'alcol se ha capito tanto male. « Puoi ripetere? » « Dai piccina, hai capito. Volete farvi un giro? Vi offro
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    qualcosa al bar e poi vediamo.. »
    È un sorrisetto quello che compare sul volto della Yamazaki, freddo, calcolatore, mentre scuote la testa e sembra valutare la situazione. « Dovrei venire a farmi un giro con un bianco etero basico razzista dei miei stivali? Con te non ci verrei nemmeno se fossi tu a pagarmi fior fiori di soldi. » « Ma come cazz-» la o muore tra le sue labbra nel momento esatto in cui Fuji carica una gomitata che lo colpisce dritto dritto in mezzo allo stomaco, lasciandogli giusto il tempo di provare a riprendere fiato prima di abbassare il pugno a centrargli le palle. « Vai a farti un giro, magari trovi pure i coglioni che ti sei perso. » Non lo degna più nemmeno di uno sguardo, non le interessa nemmeno sapere se sia ancora lì o meno, ora i suoi occhi paglierini sono nuovamente fissi in quelli della sconosciuta, una smorfia sorniona a delinearle le labbra morbidamente scure. Le si fa vicina quel tanto che le basta per superare la soglia del lecito per entrare direttamente in quella dell'intimità, la punta del naso che si perde tra i capelli di lei, le palpebre che si socchiudono appena nel respirare a fondo. « Una compagnia migliore, dicevi. » Sussurra, abbastanza forte da poterla sentire, abbastanza audace d'aggiungere una leggera risatina che si perde nei battiti della techno che si disperde intorno a loro. « Spero migliore della sua. » Un battito di ciglia e lascia scivolare il braccio sopra la ringhiera alle spalle della ragazza, abbastanza vicina da poter essere percepita la sua presenza, non abbastanza da toccarla veramente. Lancia un'occhiata al pacchetto che ha ancora stretto tra le dita e gli angoli della labbra si distendono appena in un ghigno sghembo. « Cos'hai da offrirmi? » Non ha alcuna intenzione di andare per il sottile mentre il polpastrello dell'indice prende a ridisegnarle il profilo delle scapole. Sfrontata, la fissa in quegli occhi scuri come la pece, nella quale sente il bisogno di perdersi, appena il tempo di vederli riempirsi di quel singolare quanto unico velo lacrimoso che il piacere produce. Un cenno alla sigaretta. « Oltre quella. »


    Edited by moondust. - 24/4/2024, 00:35
     
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    Priva di senso, dai testi letteralmente sconclusionati e i bassi inflazionati, la techno music si confermava ormai da decenni essere lo sfondo perfetto per l'alienazione più efficace, un po' come starsene distesi al sole ad accumulare sottopelle sostanze cancerogene apprezzando poi solo la tintarella; i pub che la ospitavano si riempivano inevitabilmente di spettri e astinenti, fantasmi inebetiti da qualche trauma infantile mai del tutto risolto, emblema di una società al collasso che provava per i propri figli più vergogna che orgoglio. «Non piace a nessuno, l'hanno inventata insieme alle anfetamine con lo stesso scopo.» Non aveva l'aria di essere disposta a un dibattito funzionale, Nana, quando rispose a una domanda che sarebbe anche potuta restare retorica se non fosse stata rivolta ad una stratega patologica, un involucro di pelle e mistero che non esitò a svanire nella folla in maniera amabilmente speculare a quanto fatto dall'interlocutrice. Quanto accadde nei minuti successivi rassomigliò al colpo di scena di una pellicola d'avanguardia, dall'approccio miserabile dell'estraneo prossimo all'overdose fino al colpo fatale in pieno stomaco, passando per l'affilatezza di una lingua che portava alta la bandiera dell'appartenenza agli Yamazaki, e non di meno attraverso l'audace sfrontatezza con cui la figlia di Goro dominò un imprevisto che avrebbe messo in difficoltà parecchie altre donzelle meno consapevoli. Rigida alle spalle dell'inconsapevole cugina, Nana osservò la scena con i muscoli contratti d'allerta, pronta ad intervenire fosse anche solo allo scopo di non concedere soddisfazione al malintenzionato; nessun bisogno ne solleticò i nervi, tuttavia, e svelta com'era iniziata la tragedia si dissolse, sipario basso su un corpo contorto dal dolore e sconfitto dall'umiliazione. Si accorse di aver trattenuto il fiato fino a quel momento solo quando tornò a respirare, recuperata dagli occhi che Fujiko le puntò addosso mentre infrangeva lo spazio vitale di cui evidentemente nessuna delle due aveva realmente bisogno. «Non sono bianca, non sono etero, e prevedibilmente nemmeno razzista.» Parlò dopo aver lasciato piovere lo sguardo sul sogghigno delle labbra alrui, quasi avendo bisogno del labiale immobile della sua bocca per rendere udibile quanto a sua volta scandiva. «Stando a quel che ho appena visto, sono esattamente tutto ciò su cui ti faresti un giro.» Svelandosi altrettanto sfacciata nonché molto poco impressionabile dall'aggressione appena sventata, Narumi azzardò l'intraprendenza di uno slancio che tentò di incastrare la consanguinea tra sé e la ringhiera esterna, assistita solo dall'evidente ristrettezza dello spazio sul balconcino e confortata dall'iniziativa già avanzata dall'altra, spunto che la maggiore si limitò a cavalcare. Dalla posizione conquistata sarebbe stato più facile cercar spazio tra le sue gambe con una coscia, una pressione quasi casuale che solleticasse il coraggio appena osservato. Le mani intanto armeggiarono sul pacchetto, due dita ad armarsi della sigaretta e altre due a roteare l'innesco sull'accendino; avrebbe avvicinato il filtro alle labbra della cugina mentre calava il volto sull'incavo del suo collo, lembo di pelle che avrebbe solleticato dapprima unicamente con il fiato. «La notte migliore della tua vita te l'avranno già offerta, e non possono esserti mancate le esperienze indimenticabili Le avrebbe concesso il tempo di fumare, non senza bramare contro le dita una reazione al languido sfregare delle proprie labbra sulla nivea linea della sua carotide, una carezza che dischiuse l'accesso ai denti per un graffio che non intendeva ferire. «Sono umile, mi accontenterò di essere tutto quello che non ti aspettavi Solo a quel punto sarebbe riemersa dalla carne appena solleticata, recuperando la vicinanza dei suoi occhi proprio quando il fumo avrebbe avuto bisogno di liberarlesi dalla bocca. E ammesso che non vi fossero ancora state interruzioni, la mano libera dal tabacco avrebbe brandito tutta la sua intraprendenza cercando la propria strada oltre il bassoventre della Serpeverde, insinuandosi al di là del bordo della stoffa per bussare alle porte del suo più intimo calore di donna, solo la consistenza del proprio corpo a riparare quell'audacia dagli occhi più indiscreti. «Ti dispiace essere guardata?» Avrebbe soffiato quella domanda direttamente sul suo viso, oasi sulla quale avrebbe lasciato indugiare avidamente i propri occhi in cerca di un responso che fosse fisico ancor prima che verbale, affinché fosse chiaro che almeno lei non avrebbe trovato in alcun modo spiacevole quel ritaglio di intimità nel chaos di un luogo indubbiamente sovraffollato.
     
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