Have you ever seen the rain?

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    “Ti fermi a dormire da me?” Aveva bevuto troppo, quasi senza rendersene conto, continuando a mandar giù un bicchiere di champagne dopo l'altro durante tutto il corso della serata. Tra le strette di mano ed i sorrisi affascinanti, tra gli applausi della sala ad ogni pausa programmata del suo brillante discorso tenuto sul palco in qualità di figura di spicco del gruppo editoriale Rotas, Horace aveva sentito un po' di malsana malinconia aggrapparsi alle viscere ed appesantire la mente, senza tuttavia mostrare un solo segno di quel tormento interiore agli occhi rivolti alla sua elegante figura. Sempre perfetto aveva stretto mani virili e nutrito l'ego femminile con qualche complimento ben misurato nelle parole, elargendo attenzioni a chiunque in egual misura per far sentire tutti i presenti importanti e necessari... e tuttavia quello sguardo tanto affusolato sembrava cercare continuamente sullo schermo del cellulare una risposta a quel messaggio mandato senza rifletterci troppo su, in attesa della risposta dell'unica persona che davvero il Rotas fosse mai riuscito a considerare indispensabile. Aveva immaginato quel figurino minuto muoversi per la sala diverse volte, fantasticando su come il suo visino paffuto avrebbe illuminato l'intera atmosfera con quei suoi sorrisi colmi di un'innocenza tanto grande da far male al cuore. Aveva desiderato vedere la sua chioma dorata comparire tra tutte quelle acconciature eleganti per guidarlo fino a lei e concedergli qualche prezioso minuto di quella vicinanza che da sola era in grado di portare riposo allo spirito stanco di un cacciatore sempre proteso al pensiero della successiva caccia. Quando una manina esile si era posata contro il suo braccio aveva voltato il capo quasi nella speranza che fosse davvero la sua figura a materializzarsi davanti ai suoi occhi. Il sapore della delusione gli aveva invaso il palato nel posare lo sguardo sulla siluette di una donna decisamente affascinante, quanto diversa da quella pronta ad occupare i suoi pensieri. « Signor Rotas, volevo farle personalmente i complimenti per il suo magnifico discorso... Marianne Lotbrogh. » Quelle dita affusolate avevano stretto leggermente la stoffa della camicia elegante, quasi a mostrargli come non fosse sua intenzione lasciarlo scappar via, mentre un sorriso adombrato da una leggera malizia arrivava a spiegare le carnose labbra tinte dal più peccaminoso rosso. Horace aveva assecondato con un elegante movimento del braccio quel primo approccio, portando la mano a posare contro il fianco coperto dalla stoffa di un bell'abito aderente mentre l'altra mano intrappolava quella della donna per condurla fino alle proprie labbra, in un leggero sfiorare delle nocche. La sentì ridacchiare, deliziata da quel gesto tanto elegante, proprio mentre la vibrazione prodotta dallo smartphone lo avvisava dell'arrivo di una nuova notifica. Finita ancora prima di poter iniziare, quella complicità appena sbocciata venne prontamente imbrigliata dalla vellutata voce del moro. « La ringrazio, signora Lotbrogh. Sono così onorato dalla sua presenza e da quella di suo marito tra gli ospiti di questa sera...» Bastò il solo nominare la figura del miliardario marito della mora per convincerla a lasciare la presa dalla camicia che ancora stringeva tra le dita, riportandola come bruscamente alla realtà ed al suo ruolo di fedele moglie. Non fu difficile captare il leggero spasmo all'angolo della sua bocca, innescato da un fastidio che tuttavia non le era concesso esprimere apertamente, mentre indietreggiava di un passo per allontanarsi da lui.
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    « Spero di rivedervi anche al prossimo evento di beneficenza della Rotas, ovviamente. » Un ultimo sguardo, un sorriso morbido e tuttavia ben poco aperto ad eventuali scenari futuri che potessero scaldare i pensieri della donna, prima di lasciarla al centro della sala con un cenno del capo, mentre già le mani ricercavano nelle tasche dell'elegante completo il cellulare. Non sorrise nel leggere quella breve risposta su schermo, eppure per la prima volta dall'inizio della serata sentì il proprio cuore perdere un battito. « Dì a mio padre che sono dovuto andare via prima per una chiamata. » La silente figura di una dei dipendenti dell'azienda si accostò prontamente a lui nel vederlo dirigersi verso l'uscita, pronto ad annuire alla sua richiesta ed a porgergli il lungo cappotto. Una limousine era già in sua attesa appena fuori dall'edificio, pronta a riportarlo ovunque ordinasse. […] Le dita tirarono via con uno strattone il nodo della cravatta, spostandosi successivamente ad aprire i primi bottoni della camicia d'alta sartoria italiana per permettere alle ondate di calore causate dal troppo alcool in circolo di risalire fino al volto, donando una leggera tinta rossastra agli zigomi affilati mentre il corpo avanzava nella penombra dell'enorme appartamento, ben più silenzioso di come Horace si sarebbe aspettato. Per qualche secondo, avanzando per il corridoio che gli parve infinitamente lungo, si ritrovò a chiedersi se Merope avesse alla fine avuto qualche contrattempo che le avesse impedito di raggiungerlo. Cercò di prestare attenzione ai rumori alla ricerca di un qualche indizio che potesse rivelargli la sua presenza tra quelle mura, ma tutto quel che le sue orecchie riuscirono a captare fu il sordo ticchettio dell'orologio da parete ed il monotono ronzio proveniente dagli elettrodomestici della cucina. A metà corridoio si ritrovò a fissare nuovamente il cellulare, aggrottando le sopracciglia davanti alla risposta ricevuta qualche ora prima da parte della Carrow, quasi alla ricerca di una rassicurazione in quei caratteri scritti neri su bianco. Gli aveva detto che sarebbe passata... e Merope non mentiva mai. Non a lui. « Merope? » Nulla. Nessuna risposta. Nessun cenno della sua presenza. “Dove sei?” Inviò il messaggio con dita irrigidite dalla delusione proprio mentre i piedi lo trascinavano oltre la soglia del salone, lì dove finalmente la vide. Doveva di certo aver tentato di aspettarlo sveglia... e tuttavia, il sonno aveva alla fine vinto, facendola crollare addormentata sull'enorme divano in pelle che occupava quasi interamente il centro della sala. Con le labbra appena socchiuse ed una manina poggiata sul cellulare illuminato da una nuova notifica, Merope Carrow sembrava così piccola da poter stare nel palmo di una mano. Così bella da togliere il fiato. Così reale da costringerlo ad avvicinarsi a lei senza poter in alcun modo evitare che il suo corpo si muovesse verso il suo calore. Abituato a muoversi senza causare il minimo rumore, Horace scivolò silenziosamente al suo fianco, sollevandole il capo solo il tanto necessario a poterlo sistemare sulle proprie gambe, lì dove gli sarebbe stato possibile immergere le dita tra quelle morbide onde dorate per carezzarne i sogni e vegliare su di lei fin quando non avesse deciso di tornare da lui. « Cosa devo fare con te, mh? »
     
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    Si domandava cosa sarebbe successo, se quella gocciolina di sangue sul pavimento avesse preso a muoversi. Era piccola, stretta, abbastanza lineare. Riusciva a segnare un cerchio diremmo perfetto, non fosse stato per le quasi impercettibili irregolarità che ne storpiavano appena i bordi. Era carina, graziosa, simpatica quasi. Già se la immaginava, a sballottolare qua e là. Magari sarebbe scesa giù in cucina, facendo impazzire i poveri elfi domestici. Si sarebbe infilata dentro il frigorifero, tra le stoviglie e fin sotto al tappeto, facendo inorridire la povera signora Ferguson, una delle governanti. Sentiva quasi i suoi strilletti impanicati ed arrabbiati rimbombare tra le pareti, quel piccolo angioletto steso a terra, ed il sol pensiero piegava le labbra del visetto da bambola tristemente inviolato in un sorriso divertito. Coi lunghi capelli biondi a ricaderle sulle spalle, le braccia stese in avanti, ripiegata su di un fianco, Merope prese ad osservare ulteriormente la gocciolina di sangue. Il suo, sangue. Chissà, magari se l'avesse guardata ancora, ancora ed ancora, avrebbe preso davvero a danzare! Le era capitato più di una volta, dopotutto, che strani oggettini tutt'attorno a lei avessero preso a far cose altrettanto strane. Una volta aveva visto una creaturina verdognola addentrarsi sotto la gonnella della Signora Ferguson, che per settimane aveva deciso d'indossare pantaloni, nel dubbio. Un'altra aveva adocchiato un follettino blu svolazzare dietro il volto costantemente imbronciato di Abraxis, suo padre. Glielo aveva detto, ma lui non ne era stato troppo contento e le aveva sbattuto la faccia contro il tavolo. E Merope aveva pensato fosse stato giusto, farlo. Insomma, i folletti non piacevano quasi a nessuno (a lei sì)! E quindi, probabilmente, non era stato troppo educato ridere in faccia al suo povero papà per la presenza di uno di quei mostriciattoli proprio sulla sua testa. Il Signor Carrow ci provava sempre, ad esser gentile con lei, dopotutto. Quella mattina, ad esempio, le aveva portato la colazione, così come aveva fatto con la mamma. Croissant al cioccolato e milk-shake alla fragola. Merope non ce l'aveva fatta a finirlo tutto, il dolcetto -era così dannatamente piccolo, quel suo pancino da bimba!- e stava ancora sgranocchiando un angolino di crosta dorata, quando glielo aveva chiesto: il permesso per fermarsi a dormire dal suo amico Horace. A differenza di Xaden, Abraxis non era mai stato particolarmente geloso, nei suoi confronti. Probabilmente perchè sperava in un di lei farsi ingravidare dal povero sfortunato di turno, per levarsela di torno. Ma Merope credeva, semplicemente, perchè era un papà tanto buono da -oltre a portarle la colazione, ribadiamo!- permetterle di frequentare i propri amichetti come e quando voleva. Quella volta però, in quel dì d'Aprile, qualcosa non aveva quadrato, nel discorso della piccola Carrow. Horace l'avrebbe aspettata a quell'importante evento dalla sua stessa Società indetto, per poi passare la notte assieme. Un evento dove avrebbe presenziato una buona fetta della Magia-Da-Bene. Inutile a dirsi dunque, la presenza di quella sporca creatura che, ahimè, il suo cognome lo portava legalmente, ad una festa del genere, non avrebbe mai potuto esser accettata, nè vista di buon occhio, dalla mente retrograda del Capofamiglia. E dunque un fermo no era stata la risposta di Abraxis, seguito da uno schiaffone così forte da farle esplodere il nasino in un brutto zampillio di sangue, nell'osare chiedergli perchè. Poi c'eran stati altri calci ed altri pugni, con l'evanescente figura di Sagitta -sua madre- ad allontanarsi sommessamente, che però Merope nemmeno ricordava più. Tendeva sempre a perdere il conto, dopo un po', era proprio sbadata! Così come una pasticciona lo era tutte quelle dannatissime volte in cui faceva arrabbiare il suo povero papà. Lui le aveva portato il milk-shake alle fragole che tanto le piaceva, e lei lo aveva ringraziato rovinandogli la giornata. Uffi. « Oh piccola mia, cos'è successo? » La voce della signora Ferguson la cullò d'improvviso, o forse lo fecero le sue braccia, nel rialzarla dal pavimento. Merope aveva battuto la testa così forte, contro il marmo, da non riuscire a distinguerlo. Ci vedeva doppio, ed aveva un grandissimo malditesta. Che guaio! Era sempre una scocciatura, disturbare il povero Signor Franklyn, il guaritore di famiglia. Doveva imparare ad essere meno fragile. Sìsì. I pugili, alla tv, prendevano pugni su pugni e riuscivano comunque a vincere partite e coppe. A lei nemmeno interessava, il trofeo, aspirava solo a non dare noia a nessuno con quel suo corpicino sempre così vulnerabile d'aver bisogno di cure costanti. « Ti fa tanto male? Aspetta - aspetta. Dobbiamo fermare subito l'emorragia, non sembra rotto, un attimo che... » In un lampo biancastro di luce, la punta della bacchetta della governante avrebbe risanato quel povero capillare spaccato, permettendo al nasino della piccola Merope di non sanguinare più. Poi, riportata in camera sua, la donna l'avrebbe aiutata a lavarsi. Era sporca di sangue incrostato un po' ovunque, e dove non v'era il rosso, v'era il giallastro-violaceo di dei lividi che stavan già cominciando a spuntare sull'incarnato diafano. Mannaggia, avrebbero stonato così tanto, col rosellino del vestito che aveva deciso di mettere per andare da Horace. Sperava proprio non si sarebbe offeso, il suo amico, del ritardo. Perchè sì, non poteva andare all'evento, ma avrebbe potuto sempre raggiungerlo a casa! Sìsì, avrebbe fatto così. Cosa indossare, dunque? Un abito? Sarebbero sicuramente rimasti dentro.. - Jeans e maglietta? Fuori faceva ancora un po' freddo, ed i pantaloni le davano fastidio. Troppo aderenti, le opprimevano laddove gambe e stomaco le facevan spesso male per le percosse. Nono! Facciamo niente jeans! Avrebbe messo una gonnellina ed un maglioncino, ecco. E si sarebbe portata una vestaglietta per cambiarsi la notte. L'avrebbe aspettato a casa, sveglia, così che nessuno la vedesse alla festa rendendo triste il suo povero papà, e gli si sarebbe gettata al collo riempendolo di bacini una volta rientrato.

    [..] Un ottimo piano, per Merope, non fosse stato per quel sonno che l'aveva colta d'improvviso. Col cellulare ancora stretto tra le mani, nel tentativo di rispondere all'ultimo messaggio visualizzato del Rotas, la piccola fata s'era addormentata sul divano. Indossava una vestaglietta bianca, leggera e semitrasparente, più che sufficiente visti i riscaldamenti presenti in casa. I piedini eran nudi, così come le cosce, e le braccia. La Signora Ferguson era stata abile -lo era sempre!- a coprirle qualsiasi segno con la magia, eppure sembrava aver dimenticato tre grosse impronte violacee sul lato destro del collo, forse perchè coperto dalla lunga e folta distesa d'oro ch'eran i suoi capelli. Ma Merope non c'aveva fatto comunque caso, ed adesso sonnecchiava indisturbata, immersa in un mondo onirico che forse tanto diverso dall'illusione in cui si forzava di vivere giorno per giorno non era affatto. E sarebbe stato proprio il principe di quel Sogno, a parlarle.
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    « Cosa devo fare con te, mh? » Aprì gli occhi lentamente, la piccola, battendo le palpebre più di una volta nel riconoscere -anche nella realtà- quel volto che spesso l'accompagnava nelle sue fantasie. Horace. Sorrise, d'istinto. Era così contenta di vederlo, che il cuoricino avrebbe preso a battere così forte da sembrar quasi volerle sfondare la cassa toracica. « Hory..? Horyyyy! » Urlacchiò dunque, d'impulso, mentre già si metteva a sedere, nel protendere le braccine in avanti e stringerlo in un forte -per quanta forza potesse avere, e cioè minima- abbraccio. Non indossava i suoi sigilli, Merope, perchè con lui, lei non aveva mai paura. In sua presenza, infatti, l'anima di Horace era sempre meravigliosa. Emanava un'aura così bella, l'uomo, da prospettarsi dinnanzi ai suoi occhietti vispi alla stregua di un dio. Nessuna traccia di quei brutti demoni. Nessuna ombra a gravare su quel bel viso, bensì una corona letteralmente d'oro, ad illuminarne i lineamenti tanto particolari. E dei raggi altrettanto aurei a circondargli il petto, con delle fiammelle talvolta, che tendevano però a scaldarla, e mai bruciarla. Questo era come Merope vedeva Horace. Questo era come lo vide anche adesso, quando le ditina sottili della mano destra andarono a sfiorargli il viso, beandosi di quel suo calore. Si percepì felice. Rincuorata. Intenerita. A casa. Non avrebbe saputo distinguere quali fossero le sue, di emozioni, e quali al contrario quelle del Cacciatore, ma poco le importava, mentre ancora sorrideva - felice. Fu nel protendersi in avanti per lasciargli un delicato bacino sulla guancia, che mormorò. « Scusa, Hory, volevo farti una sorpresa ma mi sono addormentata. Uffi. » Con un broncino da bimba a colorarle il visetto, gli sistemò alcuni ciuffetti di capelli disordinati. Poi appianò alcune pieghe sul colletto della camicia, ed infine si rimise a suo posto, sulle gambette piegate sotto il sedere, poco distante. « Hai bevuto? Hai le guance tutte rosse... - » Chiese poi, in una risatina sommessa, prima di stendersi nuovamente, e far cenno al ragazzo di farle compagnia. Stringendosi un po' -un bel po'- c'era spazio per entrambi. « Vieni, vieni, dai. Così ti riposi, che hai fatto le cose dei grandi, e mi racconti come è andata la serata. Mi perdoni, se non c'ero?, ho avuto un contrattempo con papà. Ma tu dimmi - » Col piedino nudo lo stuzzicò, prima sul petto, poi sulle gambe, inavvertitamente anche sopra il cavallo dei pantaloni. « - dimmi come è andata. Quale signorina hai conquistato oggi? »


    Edited by King with no crown - 5/5/2024, 15:31
     
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    Aveva bevuto troppo, troppo per riuscire ad evitare che il corpicino di Merope apparisse persino più morbido e caldo del solito, così abbandonato contro le sue gambe e mentre ancora il sonno teneva ben chiuse le palpebre fanciullesche. La vestaglia troppo corta e trasparente finiva irrimediabilmente con l'arricciarsi all'altezza delle cosce pallide, lasciando modo allo sguardo di soffermarsi su quella carne inviolata con una voracità che Horace teneva costantemente ingabbiata quando Merope entrava nella sua orbita. Era una costante tortura, lo logorava dentro, eppure la necessità di accertarsi che nulla sporcasse quell'innocenza finiva con porre dei paletti ben precisi a quel costante desiderio di saggiare contro la punta della lingua che sapore potesse nascondersi lì dove nessuno era mai giunto. Eppure aveva bevuto troppo per evitare che il sonno di quella creatura proveniente da un mondo fatato concedesse almeno ai pensieri modo di muoversi liberamente su di lei per una sola volta. Mentre le dita continuavano a carezzare lentamente ogni ciocca di quel mare dorato che erano i suoi capelli un lento sospiro abbandonò le labbra socchiuse nell'immaginare come la sua voce avrebbe tremato nel sentire quei polpastrelli risalire senza più alcun pudore lungo il profilo delle gambe affusolate, fino a scontrarsi con la barriera delle mutandine che avrebbe interrotto per solo qualche secondo quella lenta avanzata, giusto il tempo necessario a scostare la stoffa su un lato per poter affondare nel calore proibito nascosto tra le cosce tremanti. Avrebbe sussurrato il suo nome come una preghiera, allora, chiedendogli di stringerla di più? L'improvvisa pressione all'altezza del cavallo dei pantaloni lo costrinse a muoversi appena in cerca di una posizione che potesse risultare più comoda e che evitasse che Merope potesse in qualche modo percepire quell'improvviso cambiamento sotto la guancia. Si mosse il più lentamente possibile nel tentativo di non svegliarla, con i denti affondati nel labbro inferiore per evitare che un secondo sospiro seguisse quello spostamento del bacino. « Hory..? Horyyyy! » « Ti ho svegliata? Scusa piccola, stavo solo cercando di... » sistemarmi. Se la ritrovò addosso, quelle braccine esili strette attorno al collo ed il suo profumo inebriante a riempirgli il naso mentre le mani scivolavano istintivamente lungo la curvatura morbida della sua schiena, tenendola più vicina a quel petto smosso unicamente dalla sua presenza, con le dita strette attorno a quella stoffa troppo leggera. Erano sue, unicamente sue, la dolcezza e la dannazione nascoste in quegli occhi di bambina. Lasciò modo al naso si sfiorare il profilo del suo collo, lasciandole poi un morbido bacio sulla pelle nuda prima di ricomporsi il tanto necessario a costringere le dita a risalire fino alla spallina indecentemente scivolata oltre la curvatura della spalla per riportarla al proprio posto. Fu costretto a schiarirsi la voce un paio di volte, certo che in caso contrario persino quella mente tanto innocente avrebbe potuto captare tra le sillabe arrochite una qualche traccia del desiderio che minacciava di portare quelle stesse mani in percorsi ben più compromettenti lungo il corpo morbido. « Scusa, Hory, volevo farti una sorpresa ma mi sono addormentata. Uffi. » Ed era proprio lì, in quei gesti delicati con cui Merope era intenta a sistemare le ciocche dei lunghi capelli corvini e nel prendersi cura di lui che risiedeva il dolore più grande. Era in quella dolcezza che Horace non meritava, in quei piccoli gesti che gli avevano fatto scoprire per la prima volta cosa significasse avere qualcuno pronto a prendersi cura di lui, che affondavano le profonde radici i sensi di colpa che rendevano sporco ogni pensiero di possedere quel corpicino illibato. Si odiò di un odio profondo e viscerale, come ogni volta in cui la mente arrivava a ricordargli quanto a fronte dei suoi desideri e pulsioni fosse invece pura e preziosa l'anima di Merope. Come gli fosse concesso di rimanerle affianco solo a patto che fosse in grado di scacciare ognuno di quei pensieri ed al solo scopo di proteggerla, anche a costo della sua stessa vita. In caso contrario il Rotas sarebbe stato nient'altro che un orco, in quella fiaba dove di certo Merope era la principessa. « Sei qui, è questo l'importante. Pensavo non saresti venuta. » Le labbra si incurvarono di un sorriso appena accennato, rispondendo istintivamente alla smorfia buffa che arrivò ad animare quel visino incapace di nascondere le proprie emozioni o di filtrarle in alcun modo. « Hai bevuto? Hai le guance tutte rosse... Vieni, vieni, dai. Così ti riposi, che hai fatto le cose dei grandi, e mi racconti come è andata la serata. Mi perdoni, se non c'ero?, ho avuto un contrattempo con papà. Ma tu dimmi, dimmi come è andata. Quale signorina hai conquistato oggi? »
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    « Ho bevuto un bicchiere di troppo, credo. Forse due. Si nota tanto? » Uno sbuffo di risata risuonò nel salone, tra le ombre di quell'appartamento silenzioso che il Rotas aveva finito con il tempo con l'identificare come il loro posto sicuro. Aveva dato a Merope le chiavi di casa ed ormai, nonostante quello a tutti gli effetti solo un appartamento acquistato per poter avere un luogo al quale far ritorno ogni sera, la sola assenza tra quelle mura della figurina bionda sembrava far mancare una parte essenziale per poterla definire casa. La seguì con lo sguardo prima ancora che il corpo rispondesse prontamente al suo invito a stendersi al suo fianco, osservando come quel corpo affondasse in modo perfetto tra i morbidi cuscini del divano, lasciando tuttavia tra la schiena e lo schienale lo spazio per potergli dar modo di stendersi al suo fianco. Ed era sul punto di raggiungerla, quando Merope decise fosse il momento di puntare quel piedino proprio contro il suo petto, bloccandogli il respiro in petto. Si ritrovò a socchiudere gli occhi, cercando di far fronte alla nuova ondata di calore intenta ad incendiargli il ventre. « Mer... » Un avvertimento che risuonò rocamente tra di loro e che tuttavia non riuscì in alcun modo ad impedire alla giovane di sfiorare il cavallo dei pantaloni in un movimento di certo accidentale, quanto mortalmente pericoloso. Le mani sembrarono muoversi da sole, afferrando prontamente il polpaccio della ragazza per tenerlo sospeso all'altezza del proprio petto, lontano dalla zona del bacino ormai irrimediabilmente compromessa e più vicino alle labbra socchiuse. Sembrò perdere completamente i contatti dalla realtà Horace, quando i denti finirono con l'affondare appena in quella carne. Non con l'intento di far male, ma di saggiare. Con la lingua premuta contro la pelle calda, giovane, così dolce da strappargli di petto un sospiro tremante. Bastò tuttavia un battito di ciglia, un solo secondo di lucida presenza, per rendersi conto di quanto sbagliato fosse quel cedimento morale. L'avrebbe sporcata, avrebbe rovinato la cosa più preziosa al mondo con le proprie mani. Allontanò velocemente il capo, le labbra ancora socchiuse e gli occhi scuriti da pensieri troppo pesanti mentre le mani conducevano contro la superficie del divano quella stessa gamba che era stato sul punto di divorare. « Scusami, piccola. Stavo... scherzando. Non ti sei spaventata, vero? » Ne ricercò gli occhioni nella penombra, sentendo il cuore sul punto di esplodergli in petto al solo pensiero di poter scorgere in quello sguardo una sola traccia di paura. Non lo avrebbe sopportato, eppure una parte di lui continuava a sussurrargli come fosse impossibile che prima o poi Merope non finisse con il rendersi conto di quanto orribile fosse, decidendo di allontanarsi per il suo stesso bene. Era solo questione di tempo. « Lo sai, che non ti farei mai del male... vero?» Tentò di allungare le dita verso di lei, scostando dal collo esile qualche ciocca dei capelli biondi per posare sulla pelle una carezza che potesse rassicurarla e scacciar via ogni possibile dubbio, che fosse in grado di farlo perdonare, eppure le dita finirono ancora una volta per bloccarsi. A dire il vero, l'intero mondo di Horace sembrò di colpo fermarsi completamente, nel notare quei piccoli segni violacei. Forse ancora troppo scosso da quanto appena successo, oppure rallentato nelle reazioni dal vino, impiegò più di qualche secondo per riuscire a dare un qualche significato a quelle impronte così fuori posto. « Cosa è successo al tuo collo, Merope? »
     
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    « Sei qui, è questo l'importante. Pensavo non saresti venuta. » E lo pensava anche lei, in verità, quando aveva creduto che l'ennesimo calcio sullo stomaco del Signor Carrow l'avrebbe uccisa. Ma alla fine anche questa volta non era morta, e quindi, per fortuna, era riuscita a non saltare l'appuntamento. Menomale. Quanto sarebbe stato triste Hory, se gli avesse dato buca? E poi appendere gli appuntamenti era davvero, davvero da maleducati! La testolina della piccola Merope fece cenno di no dunque, tutta contenta, coi lunghi capelli a svolazzarle qua e là mentre una risata cristallina aleggiava nella calda -forse fin troppo calda, ma di questo non se ne sarebbe accorta- atmosfera del salone. E bastò il sorriso di lui, il suo Principe dalla corona d'oro, a scaldarla così tanto che, fosse stato per lei, si sarebbe gettata nuovamente in avanti per abbracciarlo e lasciargli bacetti ovunque. Ma Hory era sempre così rigido, tutte le volte che lei lo coccolava, quindi s'era convinta che chissà, magari il suo essere..troppo, potesse dargli fastidio. E allora tutto ciò che fece fu continuare a sorridere e continuare a ridere, come una bimbetta felice. Cosa che in realtà era, come se niente fosse successo, soltanto poche ore fa. Come se il suo naso non si fosse spaccato e le sue carni non si fossero riempite di sangue e lividi, Merope rideva. « Ho bevuto un bicchiere di troppo, credo. Forse due. Si nota tanto? » « Un po'. Ma sei bellissimissimo lo stesso. » Avrebbe allora avuto modo di rispondere, mentre -ormai stesa- da laggiù lo aspettava e col piedino lo richiamava. Voleva appiccicarglisi sopra, la piccola, per ascoltare quanto lui avesse da raccontarle. E sarebbe rimasta sveglia tutta la notte, se necessario, perchè Merope amava il modo in cui lui le parlava. Senza nemmeno il bisogno di dirle chissà cosa di sconvolgente, Horace trovava sempre e comunque il modo di tenere la Fatina con gli occhietti -sognanti- fissi su di lui. Adorava il modo in cui le sue labbra si distendevano, nel pronunciare alcune sillabe. O quello in cui le sopracciglia s'arcuavano appena, quando sembrava ometterle qualche dettaglio di troppo - cose da grandi di sicuro, sìsì. E quindi, in quel preciso momento, la Carrow era così concentrata sulla bellissima serata che le sarebbe spettata, per rendersi conto di quel qualcosa che -probabilmente- non avrebbe dovuto quadrarle, nello sfiorare l'amico in direzione del cavallo dei pantaloni. Chiariamoci, Merope il corpo maschile non lo conosceva. Non ne aveva mai visto uno, nudo, nè figuriamoci toccato. Tutto ciò che sapeva -e cioè davvero poco- proveniva solo ed esclusivamente dalle testimonianze dei suoi fratelli. « Mer.. » Quindi, quando fu Horace a richiamarla, perchè evidentemente il piedino ce lo aveva lasciato fin troppo, lì sopra, fu un uh sbadato e sbarazzino, ciò che trapelò dalla sua boccuccia. Aveva appreso che a volte i maschietti, a sfiorarli troppo, s'accendessero. E forse era quello il caso di Horace - o forse, semplicemente, gli stava dando fastidio -mannaggia, gli dava spesso fastidio, a quanto pare!- col troppo contatto fisico. Fu dunque in quel riconnettersi con la realtà, a seguito del di lui richiamo, che Merope lo percepì finalmente, quel qualcosa di strano. Una certa rigidità attraverso i pantaloni di lui. Una non indifferente durezza che la portò a corrugare la fronte, mentre il faccino pallido si colorava di un'espressione dubbiosa. Horace aveva lasciato il cellulare in tasca? Oh sì, doveva sicuramente esser così, e magari era proprio per questo, che s'era scocciato del suo eccessivo strusciarsi. Quindi le sue labbra a cuore si stavan schiudendo a sussurrargli un dispiaciuto -ma non timido, perchè nonostante tutto, Merope timida non lo sembrava effettivamente (e pericolosamente) mai- « Oh, scus- » quando.. - Non avrebbe saputo spiegarsi cosa avvenne, ma lo fece comunque. I denti di Horace s'impressero nella pelle diafana e la carne tenera della sua gambetta, e se d'istinto il corpicino abituato a simili gesti in contesti tristemente differenti sobbalzò, le sopracciglia della biondina si corrugarono di curiosità. Non le fece male, rispetto a quanto si sarebbe aspettata -magari aveva fatto arrabbiare anche lui, con quel suo ritardo! E lo avrebbe capito, sìsì!-, non troppo. Certo, la bocca la sentì modellarglisi sopra ed i denti affondare in quell'incarnato fin troppo delicato, ma il leggero dolore fu veloce, a trasformarsi in qualcos'altro. Perchè Merope la violenza la conosceva bene, -fin troppo bene- ma non era ciò che pareva nascondirvisi dietro, a quel gesto. In fondo qualche morso l'aveva ricevuto, la piccola Carrow, in passato. Abraxas non lo faceva spesso, perchè era un bravo papà, ma una volta che Merope aveva diciassette anni ed il suo corpicino era appena sbocciato l'aveva vista nuda e l'aveva accarezzata in modo diverso, mordendola in direzione dell'ancora un po' acerbo seno sinistro. Le era uscito sangue, in verità, ma la signora Ferguson -ch'era irrotta d'improvviso lanciando un inorridito urlo- l'aveva aiutata a richiudere la ferita e nascondere l'impronta dei denti, intimandole -chissà poi perchè- d'urlare forte, la prossima volta che fosse successo. E Merope proprio non ne aveva compreso il motivo, di una tal preoccupazione, contenta soltanto che quella volta il suo papà l'avesse accarezzata e non picchiata, ma comunque -e per fortuna- non era più accaduto. Però ecco, seppur decisamente non paragonabile a quell'orrore, la Fatina parve riconoscerne alcune fattezze, nel modo in cui ancora i denti di lui saggiavano la sua pelle, con la lingua calda ad inumidirne la carne. Ed inaspettatamente -col suo papà non era successo- si percepì rabbrividire, con un inaspettato calore a formicolare in mezzo alle gambe, quando, alla fine, Horace si scostò con la stessa velocità con la quale s'era avventato su di lei. Merope battè più di una volta le palpebre. Il Sole di lui, s'era tinto di rosso, sotto i suoi occhi. Che strano. « Scusami, piccola. Stavo... scherzando. Non ti sei spaventata, vero? » Poi il colore cambiò, virando verso il blu. Ed il blu la Fata dell'Anima lo conosceva bene: era il colore della paura. Eppure non la riconobbe, come propria. Era..La sua? Mh. « No, io sto bene. » Disse, gentile, muovendosi un po' per fronteggiare quel formicolio che ancora l'animava. Uffi. Che fastidioso. « Lo sai, che non ti farei mai del male... vero? » Annuì, e mentre lo faceva si piegò sotto il tocco di lui, sorridendo e socchiudendo gli occhi. « Mhmh. Lo so. Non mi hai fatto male Hory. A me è piaciuto, anche se scherzavi e questo caldo in mezzo alle gambe mi dà un po' fastidio. » Lo avrebbe pronunciato con un'innocenza e leggerezza disarmanti
    « Ma non.. - » Ti preoccupare, immagino che passerà - ed avrebbe aggiunto, non fosse stato per quella carezza. Non fosse stato per quella domanda. « Cosa è successo al tuo collo, Merope? » تفضل "Eccoti". Merope aprì gli occhi di scatto, e quando lo fece, sobbalzò così violentemente che fu un singhiozzo a scuoterle il petto. Era una lingua antica, quella di certe entità: le anime. Emozioni, aure, chakra, bodachs. Tanti eran stati i nomi con cui l'umanità le aveva sempre denominate, da che il Mondo stesso ne avesse memoria. Per Merope, quel tipo d'emozioni, eran semplicemente demoni. E fu la voce di uno di loro, a richiamarla. E fu in quegli occhi completamente neri, che si perse. Mentre spalancava i suoi, d'occhietti, -infatti- la Fata non potè fare a meno di osservare -inerme e spaventata- l'ombra che adesso gravava dietro le spalle dell'amico. Horace, il suo Principe dalla corona d'oro, aveva perso tutta la sua luce. Non fu un caso, che quel demonio gli somigliasse. Rassomigliavan sempre, le anime, ai loro possessori, ed alle brutture del genere umano Merope in fondo s'era abituata. C'era vissuta. Ma vedere quel sinistro aleggiare sul ragazzo, ed inchiodarla con quello sguardo carico d'ira e violenza, la turbò così tanto che il respiro le si bloccò nel petto e la vista s'appannò di lacrime. Ed era orribile quello spirito. Era nero. Era affamato. Era folle. Le sussurrava cose in una lingua antica che non voleva sentire, cose indicibili che -lo sapeva- avrebbe presto suggerito ad Horace di fare. A lei? Al suo papà? - Scosse la testa. « No, no, no... » Si girò verso il tavolino di poco distante. Aveva lasciato i bracciali -i suoi sigilli- nella borsetta. Non aveva mai avuto il bisogno di metterli, con lui. Il suo sentire non le aveva mai fatto male, a dispetto di chiunque altro. Eppure adesso la terrorizzava ed impressionava così tanto, che nel farsi piccola piccola sull'angolo più estremo del divano, non se ne accorse nemmeno quando ne precipitò al di là. Battendo per terra, gli occhi li chiuse. Sentiva che presto quel demone l'avrebbe presa. Succedeva sempre così, con suo padre. Con chiunque altro. La prendevano sempre. « Non tu Hory per favore, non tu. Non farmi questo.. » Lacrime macchiarono il visino da bambola. « Per favore. »


    Edited by King with no crown - 5/5/2024, 15:32
     
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    Molti occhi si erano posati con folle paura sul suo volto, un numero tale da finire perso nelle nubi pesanti di una pietà negata ad ognuno di quegli imploranti e lacrimosi sguardi di preghiera. Non uccidermi, ti prego. Le sue mani erano sempre state veloci nel porre fine alla sofferenza, chirurgiche nel muoversi per priva della vita... e mai una sola volta un attimo di esitazione aveva attraversato la mente lucida e spietata del cacciatore. La certezza di avere dalla propria parte il sacro compito di proteggere e preservare la sicurezza degli innocenti, inculcata in lui fino dalla più tenera età, assieme a quella invece maturata nei lunghi anni di missioni su come l'insicurezza finisse di volta in volta unicamente con il prolungare la sofferenza e la tragedia, lo rendevano una macchina di morte incredibilmente veloce ed efficiente. Ma non erano gli occhi di una preda quelli che cercavano la sua compassione, in quell'appartamento improvvisamente silenzioso. Gli occhioni di Merope, quegli specchi chiari che si erano sempre rivolti a lui con totale fiducia ed affetto erano mutati al punto da divenire irriconoscibili. Era come se qualcuno si stesse divertendo ad infilare aghi arroventato in ogni centimetro del corpo del Rotas, straziando la carne e tentando di far cadere miseramente a pezzi l'animo del combattente. Faceva così male da bloccare il respiro in petto. Con il braccio ancora immobile, sospeso a mezz'aria lì dove si era mosso per scostare le ciocche di capelli d'oro dalla curva morbida di quel collo familiare, lo sguardo perso nel vuoto lasciato dalla rapida fuga della Carrow nel punto in cui fino a pochi attimi prima erano stati quei segni violacei a sporcare la carnagione pallida. Qualcuno ha stretto le dita attorno al suo collo. Ognuna di quelle parole avrebbe portato la certezza del fallimento nella mente improvvisamente silente, svuotata di ognuno di quei pensieri dolci ed amorevoli che finivano con il riempirla con naturalezza ogni volta che Merope irrompeva nel suo campo visivo. Quasi il mondo avesse smesso semplicemente di muoversi a fronte di quella verità tanto enorme ed imperdonabile. E tu non sei riuscito a proteggerla. Hai lasciato che accadesse. Non era la sorpresa a bloccare i movimenti del corpo improvvisamente immobile, incapace di raggiungere quel fagotto tremante che tentava prima di ogni cosa di allontanarsi da lui, ma una rabbia tanto letale e silente da scivolare nell'ambiente circostante come il più letale dei veleni, rendendo l'aria irrespirabile e nociva. « No, no, no... » Si rese conto di aver smesso di respirare per interminabili secondi solo quando quella vocina strozzata arrivò ad interrompere il silenzio, costringendo gli occhi a ricercare quel visino pallido ed atterrito. Si era spostata sul lato diametralmente opposto del divano, Merope. Stava fuggendo dal suo tocco per la prima volta. « Rispondi alla domanda, Merope. Cosa è successo al tuo collo? » Horace, il suo Horace avrebbe di certo dimenticato ogni cosa pur di correre verso di lei per rassicurarla ed avrebbe fatto ogni cosa in proprio potere per asciugare con teneri baci ognuna di quelle improvvise lacrime arrivate a macchiare le gote arrossate dai sentimenti troppo intensi. L'avrebbe stretta tra le braccia per cullarla contro il proprio petto, tenendo lontano da entrambi ogni pensiero maligno. L'avrebbe distratta fino all'alba con qualche storiella sulle sue imprese, di quelle in grado di riempirle lo sguardo innocente di una meraviglia fanciullesca. Il cacciatore si ritrovò costretto a respirare a fatica aria tra i denti serrati, scoperti dalle labbra arricciate da quella rabbia sempre più pressante. La necessità che qualcuno pagasse con la carne, il sangue e la vita per quei segni violacei rendeva la sua mente un'intricata mappa di collegamenti ed indizi che potessero condurlo verso il nome del colpevole. Non esisteva alcuno spazio per la pietà tra quelle mura.
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    Chiunque avesse stretto le dita attorno a quella carne, avrebbe perso per prima cosa le mani... e sarebbe lui a tagliarle via, recidendole appena sopra i polsi. Sarebbero stati poi gli occhi che avevano osato guardare quel figurino senza alcuna pietà ad essere cavati via dalle orbite, lasciando al loro posto nient'altro che buchi oscuri e sanguinanti. Le aveva urlato contro, smosso dalla rabbia? Sarebbe stato in quel caso necessario passare la lama affilata del coltello ai lati della bocca, così da poter aprire su quel volto un sorriso lungo da un orecchio all'altro. Merope adorava i sorrisi. Non poteva sapere dell'ombra comparsa alle sue spalle il Rotas, di quelle mani artigliate poggiate contro le sue spalle e di quella bocca colma di denti affilati posizionata ad un soffio dal suo orecchio, intenta a sussurrargli languidamente di quando dolce sarebbe stata la vendetta. Non aveva idea di come stesse velocemente crescendo, raggiungendo il soffitto ed osservando la scena dall'alto con occhi scintillanti d'eccitazione, pronta a divorare ogni cosa da lassù. فقط من اجلك. Solo per te. Il corpo tornò a muoversi rispondendo al naturale istinto di avvicinarsi a quello di lei, a quel punto steso sul pavimento oltre il bracciolo del divano dal quale era precipitata nella fretta di mettere più distanza possibile tra loro due. Doveva osservare ancora una volta quei segni. Il colore gli avrebbe rivelato se fossero freschi o meno, di certo qualche indizio sulla dimensione della mano che li aveva causati. E Merope avrebbe fornito tutte le risposte che Horace avrebbe chiesto, che lo volesse o meno. Finì con l'inginocchiarsi a pochi centimetri da lei, il braccio pronto a scostare ancora una volta i capelli oltre la spalla tremante e gli occhi attenti, pronti a catturare ogni dettaglio che potesse rivelarsi utile. « Chi è stato? »« Non tu Hory per favore, non tu. Non farmi questo.. Per favore. » ...lui? Era lui l'orco? Era stato lui a causare quelle lacrime? Le ciglia batterono velocemente per un paio di volte, quasi Horace fosse intento al tornare alla realtà dopo essere sprofondato in un incubo lungo una vita intera. Si ritrovò ad osservare davvero quel visino che aveva giurato di proteggere ad ogni costo ed ogni sofferenza su di esso dipinto. Dubitò per un solo secondo di non essere stato lui stesso il carnefice di quei lividi e di ogni male del mondo, davanti alle tracce umide lasciate da quelle bollenti lacrime sulle guance della sua Merope. Le dita si arrestarono a mezz'aria, a quel punto incapace di raggiungerla. Ed eccola, l'esitazione che avrebbe finito con il prolungare la sofferenza e la tragedia. La sentì aggrapparsi a lui con piccole manine tenaci, tirare le ciocche di capelli nel disperato tentativo di costringerlo a tirar fuori il capo da quell'acqua torbida nel quale stava annegando per poter respirare. « Sono... io? » Una prima, profonda crepa arrivò ad attraversare quel muro di certezze sul quale fosse la cosa giusta da fare. Sentì le fondamenta di ogni cosa tremare pericolosamente, lasciandolo senza respiro. « Sono stato io a farti questo, Merope? Ti prego, rispondimi. Sono io a farti male? Sono io- » l'orco della tua favola?
     
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    « Chi è stato? » La voce del suo Horace, era diversa. Merope rimaneva per terra, gli occhi sbarrati e copiose lacrime a bagnarle le guanciotte. Al contrario, invece, il Rotas le si era inginocchiato di fianco, e le sue dita, che al contatto con la pelle la Fata avrebbe percepito bruciare, le scostarono le ciocche di capelli incriminate. E dunque sobbalzò, Merope, con un violento singhiozzo a scuoterle il petto. La Rabbia di lui, era sempre più opprimente. Adesso pareva esser in grado d'occupare l'intera stanza. Gravava sulle spalle dell'amico, e su di lei. Aveva denti appuntiti, un distorto sorriso maligno, e due occhi neri come la più oscura Tenebra. Le faceva paura, e per questo rimaneva lì, tremante. Il cuoricino a batterle così forte nel petto, da sembrare in procinto di poterlo sfondare da un momento all'altro. E seppur fosse stata abituata, a simili manifestazioni, pareva -a Merope- tutto così diverso. Tutto così spaventoso. Il suo Principe dalla Corona d'oro, mai le si era rivelato sotto questo aspetto. Con lui, si era sempre sentita al sicuro, la piccola Carrow, tanto da non avvertire il bisogno d'indossare quei suoi sigilli, condanna e salvezza assieme. Ma il sentire di Horace, che adesso si ritrovava a percepire attraverso ogni sinapsi del corpicino microscopico, era qualcosa di tanto viscerale e brutale, che sarebbe stato impossibile per lei scamparne. Dunque fu forse per questo, che sotto il tocco di lui, Merope oltre a sobbalzare si scostò, indietreggiando sul pavimento con l'aiuto dei gomiti e le gambette. La vestaglietta alzata sulle cosce, a lasciar trasparire l'intimo al di sotto. Una spallina caduta verso il basso, a scoprirne parte dei piccoli seni ed i capelli sciolti a coprirle un intero lato del visetto da bambola. Era scombinata, la Fata, ma non se ne sarebbe nè resa conto, nè le sarebbe importato. Nulla, infatti, aveva importanza di fronte a quanto quei suoi occhietti da bambina fossero in vero costretti a guardare. Quel Demonio era vicino, era così vicino da riuscire a saggiarne la cattiveria su di sè. Laddove Horace l'aveva sfiorata, infatti, in quel piccolo lembo di delicata e morbida carne, la sua pelle s'era arrossata, come ustionata. E più lui le stava accanto, più la sua Rabbia la minacciava, più Merope sentiva il respiro venir meno e l'intero -piccolo- fisico prossimo al collasso. Non sarebbe infatti stata pronta, la Fata dell'Anima, ad accogliere e fronteggiare un simil Mostro. Troppo forte, l'Ira di lui. Troppo feroce. Violenta. Bestiale. I suoi sibili eran quanto di più orribile Merope avesse mai sentito. No, il suo potere non le permetteva di leggere i pensieri altrui, ma le intenzioni dettate da quelle entità, quelle sì che poteva avvertirle. E dunque in quella lingua antica quanto il tempo stesso, Merope era costretta a carpire ogni cosa. Il Mostro gli suggeriva di fare a pezzi. Dilaniare. Squartare. Distruggere. E seppur chi le aveva fatto questo e tanto altro, meritasse tutto ciò -e persino oltre- la piccola Carrow si sentiva incapace di ascoltare un minuto di più. Non era giusto, infatti, amare suo padre - quell'Orco che ogni giorno rendeva quella sua favoletta un racconto dell'orrore. Ma lei comunque gli voleva bene, ed il fatto che potesse esser la Bile Nera di Horace, a minacciarlo in maniera sì turpe, rendeva quel suo sentire sempre meno insopportabile. Dunque scosse la testa, la piccina, stringendo gli occhi e mordicchiandosi le labbra. Non avrebbe detto una sola parola, su Abraxis. Non a lui. Non alla sua Rabbia. Non così. Quello non era il suo Horace, e seppur le facesse male al cuore ammetterlo, lei -adesso- ne era spaventata più di qualsiasi altra cosa. Fu tuttavia in quel momento, che qualcosa avvenne. Gli occhi Merope li teneva ancora chiusi, mentre lacrime continuavan a rigarle il faccino, quando riuscì comunque a percepirlo, quel cambiamento. Un barlume di luce. Si voltò in sua direzione. Adesso le mani, Horace, le teneva a mezz'aria. E quell'orribile ombra che ancora gravitava sulle sue spalle, così grossa da sfiorare il soffitto, presentava ora una crepa all'altezza del petto. E sì, era una luce flebile. Era uno scintillio dettato dalla paura. Ma era una paura giusta. Era una paura sincera, nata dalla fonte di un sentimento assai più grande. E buono. Meraviglioso. Bello. Tirò su col nasino, Merope, che a questo punto avrebbe raccolto la forza necessaria per mettersi in ginocchio. « Sono...Io? Sono stato io a farti questo, Merope? Ti prego, rispondimi. Sono io a farti male? Sono io- » Scosse la testa. No, non sei tu. E con ogni probabilità glielo avrebbe anche detto, ma al momento, c'era altro di più importante che avrebbe dovuto - e voluto fare. Se con la Rabbia di lui era stato difficile -anzi impossibile- combattere, lo stesso non si sarebbe potuto dire della sua Paura. Quello, d'altra parte, era un sentimento che conosceva così bene, da pregustarne qualsiasi sfumatura sulla punta della propria lingua, persino la più piccola. E proprio perchè vi era così familiare, proprio perchè l'intera sua vita, era fatta di Paura, non avrebbe concesso un sol attimo in più, ad Horace, d'affogare in quel torbido fiume. Dunque, ormai in ginocchio, Merope bloccò ogni sua parola, poggiandogli le manine sulle guance. Bruciava ancora un po', il suo Principe, e per questo avrebbe mugolato appena per il dolore, ma non se ne curò troppo quando, spingendosi in avanti, le labbra le poggiò sulle sue. Gli occhi li chiuse, mentre la bocca la schiudeva il tanto necessario ad accogliere dentro di sè quanto era sua intenzione estirpare dal profondo di lui. Ed allora in quell'assai poco convenzionale bacio, che forse ad occhio esterno sarebbe parso persino banale, ma che per lei era una vera e propria lotta alla sopravvivenza d'entrambi, Merope assorbì ogni cosa. Il suo dolore. Il suo timore. Il suo ripensamento. Tutto ciò le scivolò attraverso, serpeggiandole sotto ogni tessuto del fragile corpicino.
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    E nel mentre che quel bacio si rendeva sempre più profondo, con la lingua che chiedeva timidamente il permesso d'insinuarsi tra i di lui denti per approfondire ed aprire ulteriormente il passaggio, Merope sospirò, le ditina sottili ad incastrarsi ad alcune ciocche dei suoi capelli. Soltanto alla fine, si scostò. Adesso tutto ciò che di brutto c'era stato in lui, era dentro di lei. E si sentiva terrorizzata e profondamente triste, ma, in un sospiro, tentò di parlare. « Va tutto bene, Horace. » Era stanco il suo tono, dopo quella battaglia. Ed era stanca lei, la cui pelle pareva ancora più pallida del normale, con gli occhi leggermente segnati di viola e le labbra smorte. « Adesso va tutto bene. » Gli occhi li socchiuse, quando quel solitario rivolo rosso cremisi le sporcò l'incarnato diafano. Colò via dal suo nasino, in una traiettoria irregolare che le macchiò le labbra e la vestaglietta, sino a gocciolare per terra. A quel punto -e suo malgrado- si percepì gravare in avanti, la testolina a collidere contro il petto di lui. Con manine tremanti ne strinse la camicia: era di nuovo caldo come il Sole. « Scusa, Hory, non posso dirtelo chi mi ha fatto questo. Ma sto bene.. » Sempre più flebile nella vocina, alzò il capo quel tanto necessario per guardarlo da laggiù. Sorrise. « Stiamo bene. » Respirava tuttavia a fatica, e si sentiva prossima a svenire da un momento all'altro, quindi aggiunse - debole. « Mi sento un po'.. - » Chiuse gli occhi, morì per due o tre secondi, poi tornò alla vita « - stanca. Ti dispiace se - ci mettiamo a letto? »


    Edited by King with no crown - 5/5/2024, 15:33
     
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    Horace aveva evitato in vita sua di ferire chi si trovava davanti a lui per i motivi più disparati e, nemmeno a dirlo, non tutti così nobili come si sarebbe potuto pensare ad un primo sguardo. Aveva evitato di pronunciare quella verità per quieto vivere, oppure per guadagno personale. L'aveva fatto per indifferenza o per codardia... mai, tuttavia, per paura. Non prima di Merope. Ed era a quel punto difficile persino immaginare che fosse esistita una vita prima che i suoi occhi da bambina arrivassero a soffermarsi su di lui, ridisegnando i contorni della sua realtà ed incoronandolo principe in una fiaba in cui forse il Rotas avrebbe vestito meglio i panni dell'orco. Eppure bastava davvero poco ad una mente tanto lucida nell'infliggersi dolore a comando per riportare alla memoria quel senso di schiacciante solitudine. Un'infanzia in cui aveva costantemente camminato in punta di piedi, sempre attento a non causare disturbo ad altri con la propria presenza costantemente di troppo. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Lo sentiva addosso, quel bambino, il fantasma di una madre che aveva scelto di togliersi volontariamente la vita piuttosto che avere a che fare con lui. Se nemmeno la sua stessa madre aveva sopportato la sua vista, come avrebbero potuto altri volerlo accanto? Costantemente nel posto sbagliato. Sarebbe stato meglio fosse scomparso nel nulla senza lasciarsi dietro alcuna traccia. Non apparteneva allora a nessun posto Horace e non era riuscito ad avere la certezza che una sola persona al mondo fosse il grado di vederlo, prima che lei arrivasse. Merope lo aveva stretto per mano e trascinato in un mondo diverso da quello dove aveva vissuto fino a quel giorno. Un regno pieno di meraviglia, disegnato dai colori sgargianti della sua innocenza... un mondo nel quale lui era importante, necessario, indispensabile. Il suo Principe dalla Corona d'oro. Si era sentito spesso inadatto a quel ruolo tanto importante, eppure mai si era tirato indietro, continuando a ripromettersi di migliorare al punto da riuscire un giorno a sentire di meritare quell'onore. Solo per lei. Il Principe dalla Corona d'oro non l'avrebbe tuttavia mai fatta piangere. Non l'avrebbe mai spaventata al punto da toglierle il respiro. I polmoni sembrarono svuotarsi completamente d'aria mentre rimaneva immobile davanti a lei, inginocchiato a pochi centimetri da quel corpicino tremante. Era terrorizzato dal pensiero che la piccola Carrow potesse rendersi conto dell'errore fatto nell'assegnargli quel titolo tanto prezioso. Gli orchi non potevano divenire principi, lo sapevano tutti. L'aveva ferita,allungando per la prima volta su di lei le mani non per cingerla e proteggerla, non per cullarla... ma per pretendere che gli dicesse quel che voleva. Indegno. Sporco. Malato. « Perdonami, piccola. Io non - » merito di rimanere al tuo fianco. Lo so. Le parole sfumano tuttavia nel silenzio, incapaci di ammettere ad alta voce una verità tanto dolorosa. Pregava unicamente per un'altra possibilità, Horace. Un solo barlume di perdono che gli desse modo di espiare i suoi peccati e di pagare con il sangue per essi, se fosse stato abbastanza per ottenere il suo perdono. Nemmeno la morte era mai risultata ai suoi occhi tanto dolorosa quanto la paura di non poter più essere al fianco di quella creatura proveniente da un altro mondo. « Merope... » Provò a richiamarla ancora una volta, senza tuttavia trovare il coraggio necessario a colmare quei centimetri di vuoto venutisi a creare tra di loro. Non solo aveva permesso che qualcuno arrivasse a stringere le dita attorno al suo collo, ma aveva finito con il ferirla a propria volta. Con che coraggio allora sarebbe potuto tornare a sfiorarla? Eppure furono quelle manine esili a dimostrarsi ancora una volta abbastanza coraggiose per entrambi. A salvarli da quell'abisso che sembrava sul punto di inghiottirli entrambi. Arreso al suo tocco Horace si trovò a sospirare nel percepire quelle dita minuscole carezzare il volto indurito dalla preoccupazione e dalla rabbia, inclinando appena il capo per posare completamente una guancia contro il suo palmo e rimettendosi senza esitazioni alla sua presa morbida. Che facesse di lui quel che voleva. Che esigesse la sua testa, persino. Non avrebbe combattuto contro di lei per alcuna ragione al mondo. Chiuse gli occhi come un bambino nel percepire quel calore, lasciandole la propria vita su un piatto d'argento come tributo ed il quel buio concesso dalle palpebre ben serrate si lasciò sprofondare lentamente. Non la vide avvicinarsi, né si rese conto di cosa stesse succedendo, fin quando la morbida forma di quella bocca non arrivò a modellarsi sulla propria. Forse stava sognando. Non sarebbe infondo stata la prima volta che la mente gli concedeva di poter immaginare come sarebbe stato poter assaporare quelle labbra delicate, scoprendone finalmente il sapore contro la punta della lingua. Aveva persino finto che fosse sua la bocca di qualche altra donna mentre ad occhi chiusi si spingeva tra le gambe dell'ennesima sconosciuta, ricercando un dettaglio che potesse ricordargli lei nei corpi sempre troppo diversi da quella candida perfezione di cui Merope si vestiva. Eppure sembrava così reale, il sapore salato delle lacrime che inumidivano gli angoli di quel paradiso giunto a lui, del tutto indegno di un simile dono. Era così dolce, quell'improvvisa sensazione di calore lungo la gola, come se ogni dolore stesse risalendo verso la bocca per poterne fuoriuscire e ripulire la sua anima. Sembrava alleggerirsi ogni secondo di più, quasi ogni preoccupazione stesse lentamente svanendo, lasciando liberi i polmoni di tornare a riempirsi di aria pulita ed i muscoli di muoversi senza più essere appesantiti dal timore. Fu allora che con un movimento morbido portò una mano a scivolare lungo la morbida curva di quella schiena minuscola, Horace, così da poterla sospingere contro il proprio petto fino a sentirne le morbide forme dei seni premergli addosso, mentre la bocca si schiudeva a lei senza alcuna esitazione, lasciando scivolare tra quelle labbra un sospiro bollente mentre l'altra mano la portava a carezzarle la guancia, ridisegnandone i contorni con i polpastrelli per poi scivolare giù lungo il collo affusolato. La baciò con attenzione, inizialmente. La lingua a scivolare sulla sua in quel primo scoprirsi che avrebbe invero, fosse dipeso unicamente da lui, fatto durare per sempre. La saggiò senza fretta, godendo di ogni sfumatura di quel sapore che aveva finito con il pensare gli sarebbe rimasto per sempre estraneo. E man mano i pensieri tornavano a riempirsi solo di quel sentimento totalizzante che da anni lo legava a Merope, liberi da quella paura e da quella rabbia che lo avevano portato così vicino alla fine, i movimenti finirono con il farsi via via più sicuri. Più impazienti. La mano che aveva sostenuto la schiena della bionda scivolò a stringersi sul fianco morbido, lasciando che la stoffa leggera di quella camicetta trasparente si arricciasse attorno ad ogni dito. L'altra risalì ad affondare tra quel mare dorato che erano i suoi capelli, tirandone appena qualche ciocca per guidarla ad inclinare appena il capo. Solo il necessario a poter accedere con ancor maggiore passione al paradiso che Merope teneva nascosto tra le labbra, scavandone in ogni angolo con la lingua calda. Sembrò a stento accorgersi di come avesse finito con il premersi su di lei con l'intero corpo, ignorando di come alla giovane sarebbe stato possibile avvertire la pressione esercitata dalla sua eccitazione proprio all'altezza del ventre. Non esisteva nient'altro al di fuori di quel momento. Solo quando alla fine, con i polmoni che andavano a fuoco per via della mancanza d'aria, la sentì allontanarsi ed interrompere ogni contatto tra le loro labbra, Horace tornò ad aprire gli occhi per accertarsi che fosse unicamente lei, la figurina stretta tra le sue braccia. « Va tutto bene, Horace. Adesso va tutto bene. » Ebbe appena il tempo di battere le palpebre per un paio di volte, così da poter tornare a mettere bene a fuoco quel visino solitamente tinto dal rossore dell'entusiasmo ed invece così insolitamente pallido, che un fiotto si sangue vermiglio arrivò a macchiare senza alcun preavviso quella pelle di porcellana. « Ehi. Stai bene? Mer... » Le braccia arrivarono a sostenerla, circondandole la vitina sottile mentre i rimasugli di eccitazione che quel bacio gli aveva gettato addosso finivano con l'essere spazzati via dalla preoccupazione. Sentiva la testa girare appena, in quel continuo quanto repentino mutare delle proprie emozioni, solitamente ben più stabili di quanto non si stessero rivelando in quella notte. « Scusa, Hory, non posso dirtelo chi mi ha fatto questo. Ma sto bene.. Stiamo bene. Mi sento un po'.. stanca. Ti dispiace se - ci mettiamo a letto? » Sembrò sul punto di controbattere, quasi il pensiero che la Carrow stesse cercando di nascondergli chi fosse il colpevole di quell'affronto stampato in violaceo sul suo collo non fosse un discorso rimandabile in alcun caso... eppure nel vederla così stremata, Horace si ritrovò a serrare le labbra, ingoiando ogni possibile parola che potesse gravarle addosso.
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    Rimase semplicemente vicino a lei, stringendola contro il proprio petto per un lasso di tempo che parve infinito, mentre con dolcezza utilizzava il polsino della propria camicia per ripulirle il visino da ogni traccia di sangue. La cullò dolcemente, lasciando piccoli baci tra i suoi capelli, prima di far scivolare un braccio a sostenerle la schiena e l'altro sotto le ginocchia, così da poterla sollevare proprio come una vera principessa per trasportarla verso la camera da letto. Il corpo asciutto si mosse con sicurezza per l'appartamento buio senza bisogno di accendere alcuna luce ed in quella penombra sistemò il corpicino tra le lenzuola, prima di prendersi il tempo di far cadere a terra la camicia sporca ed i pantaloni. Rimasto con addosso solo i boxer scuri la raggiunse poi, stendendosi al suo fianco per poter coprire entrambi con le candide lenzuola e tirandole invero fin sopra la testa di entrambi, così da lasciare il resto del mondo completamente fuori. « Posso abbracciarti, Mer? » Solo una volta ricevuto il suo consenso avrebbe allungato entrambe le braccia verso di lei, tirandola contro il proprio petto, così vicina da poter poggiare il mento sopra la testolina bionda e da poter prendere a far scivolare entrambe le mani lungo il profilo della sua schiena. Spaccato a metà tra il desiderio di tornare a baciarla e quello di permetterle una notte di meritato riposo che avrebbe passato vegliando su di lei per ogni secondo. « ...avevi mai baciato qualcuno, prima? » Era davvero assurdo, che fosse proprio quella la prima domanda che si sentì di rivolgerle, in una notte simile. Eppure il pensiero che Merope avesse sacrificato il suo primo bacio unicamente nel tentativo di salvarlo, sembrava tormentarlo nel profondo. Un pensiero martellante, in grado di insinuarsi in profondità ed animare un senso di colpa pesante come un blocco di cemento proprio al centro del suo petto. Le posizionò due dita sotto il mento, costringendola a sollevare il visino per poter intercettare il suo sguardo. « Sai. Ho sempre letto di come fossero i principi a baciare le principesse. Mai il contrario. » Tentò allora di arricciare un angolo della bocca in un sorriso che potesse tranquillizzarla e farla sentire protetta, dopo tanta paura. E nel mentre, il volto lo avvicinava lentamente a quello di lei. Certo, Horace non era degno. Le prime luci dell'alba avrebbero tornato a delineare dei confini ben netti, costringendolo nuovamente ad indossare la propria armatura al solo scopo di proteggerla. Ma quella notte poteva contenere ancora qualche peccato, prima di giungere al proprio termine. « Non merito il tuo primo bacio, né nulla da te. Non merito di rimanerti accanto, di vivere della tua luce riflessa... ma ora, Merope, voglio solo baciarti ancora. Fin quando non diventerà l'alba. Fino a quando non ne avrai abbastanza. » Con la punta del naso strofinò contro la sua guancia, lentamente, ormai tanto vicino da poter sentire il suo alito caldo solleticargli le labbra, in attesa del suo permesso, o di una sola parola che lo riportasse bruscamente alla realtà. « E voglio che tu lo voglia allo stesso modo. Non per salvarmi, non questa volta. Unicamente perché lo vuoi. » Premette allora le labbra contro la sua bocca per qualche secondo, scostandosi tuttavia subito dopo con un sospiro a socchiudergli le labbra. No, avrebbe aspettato la sua risposta. Non avrebbe più sbagliato. Non con lei.
     
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    E furono in camera da letto. Merope, stretta tra le braccia di Horace, non si mosse per un solo attimo, limitandosi a circondargli le spalle con le esili braccine. Era enorme, lui, in confronto a quel suo corpicino fragile e da bambina. Così grande che quando venne poggiata a letto, delicatamente, attese con una certa impazienza che le si facesse di nuovo vicino. Si sentiva protetta, accanto a lui, ed ora che eran finalmente soli, senza demoni a circondarli, la Fata sorrideva - serena. Come serena era sempre, assieme al suo Principe. Sul materasso dunque rimase, la piccina, gli occhietti curiosi ad osservare ogni movimento di lui. E quando Horace si sfilò la camicia e poi i pantaloni, rimanendo in boxer, fu un'anomala sensazione di calore -tanto simile a quella provata alcuni minuti fa- a serpeggiarle dentro. Ma non ci fece troppo caso, mentre i dentini affondavano nel labbro inferiore ed il fisico minuto già si spingeva in sua direzione, una volta vicino. Quandunque il lenzuolo li coprì ed estraniò dal resto del mondo, Merope trovò la forza di sorridere. Erano soltanto Horace e Merope, adesso. Merope ed Horace. E nessun'altro. Nient'altro. « Posso abbracciarti, Mer? » Fu naturale per lei annuire, senza nemmeno pensarci. Così come naturale fu intrufolarsi tra le sue braccia, in quell'incastro perfetto. Da laggiù sospirò, rincuorata e felice. Tutto sarebbe andato per il meglio, adesso che Horace era di nuovo lì con lei. Non parve ricordarsi nemmeno di quei brutti segni che ancora le sporcavano la pelle morbida e diafana. Nè tanto meno del modo in cui suo padre glieli avesse procurati, stringendola così forte da farle mancare il respiro, per poi batterle la testa contro il muro. Nulla aveva importanza, adesso. « Sei caldo. » Bollente. Sussurrò, il nasino a sfiorargli il petto, le dita sottili a carezzargli l'addome. Un calore adesso familiare, che sapeva di cose buone e bellissime. Belle come il Sole. E quei raggi, che sentiva adesso avvolgerla e cullarla, adesso non la bruciavan più. Al contrario la cingevano, rinvigorendo ogni sua cellula dapprima indebolita da quanto di brutto avesse dovuto assorbire. Erano le emozioni, il suo elemento. E se le torbide si eran sempre rivelate la sua criptonite, quelle al contrario cristalline e limpide, riuscivano sempre a risanarla. E dunque in quell'abbraccio, seppur Horace non avrebbe potuto saperlo -nè comprenderlo, forse- Merope stava rinascendo. « ...avevi mai baciato qualcuno, prima? » Quando quella domanda trapelò tra loro, la biondina alzò il faccino verso di lui solo nel momento in cui furon le sue dita, ad accompagnarla nel movimento. Coi grandi occhioni azzurri lo guardò, ed in un sorrisino da bimba annuì. Le sue guanciotte eran già più rosee. E la sua pelle pareva meno pallida. « No. » Mormorò. Non aveva mai baciato nessuno, prima, no. Ma quella consapevolezza non la spaventò. Funzionava in modo davvero singolare quanto strano, il mondo di Merope. Era una bambina che si muoveva in un mondo di adulti, ed in quanto tale, certe cose non operavano -per lei- alla stessa maniera di chiunque altro. Quindi, che avesse effettivamente -e finalmente- donato il suo primo bacio, non la scosse più di tanto, come assunto. Ne aveva avuto bisogno, Horace, e se avesse potuto tornare indietro nel tempo, lo avrebbe fatto ancora ed ancora. D'altra parte, pensò, nello schiudere le labbra carnose per aggiunger qualcos'altro, non era stato male. Anzi. Era stato bello, così bello che il ripensarci riusciva a pizzicare ogni suo tessuto -sotto pelle- di piccole scintilline infuocate. Non seppe perchè, ma dovette stringere le gambe l'una con l'altra - e dunque, quando parlò, lo fece solo dopo un sospirino spezzato. « Perchè? E' stato brutto, per te? » Sua sorella Scylla si lamentava spesso che alcuni di quei primi bacetti con Henry Mills o George Evans, loro compagnetti di scuola quand'eran piccine, le avessere fatto davvero schifo. Troppa saliva. Troppa lingua. Troppi denti. Magari aveva sbagliato anche lei. « Sai. Ho sempre letto di come fossero i principi a baciare le principesse. Mai il contrario. » Le bastò vederlo sorridere, seppur in maniera appena accennata, per farlo a sua volta. Il petto le palpitò, l'azzurro dei grandi occhietti curiosi s'illuminò, ed in quell'abbraccio la Fata assorbì e tenne al sicuro quanto di buono ci fosse in lui. Mai lo avrebbe lasciato andare. « E? » C'era però dell'altro, e lo sentiva. Dal modo in cui il suo cuore aveva preso a battere, sotto di lei. Dal suo respiro appena accelerato, dalla scintilla nello sguardo. Conosceva ormai ogni cosa di lui, Merope, per questo lo incalzò a continuare. « Non merito il tuo primo bacio, né nulla da te. Non merito di rimanerti accanto, di vivere della tua luce riflessa... ma ora, Merope, voglio solo baciarti ancora. Fin quando non diventerà l'alba. Fino a quando non ne avrai abbastanza. » Eran così vicini a quel punto, che poteva sentirne il respiro solleticarle la pelle. Non disse nulla. Non era ancora tutto, lo sapeva.
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    « E voglio che tu lo voglia allo stesso modo. Non per salvarmi, non questa volta. Unicamente perché lo vuoi. » Allora, l'esitazione delle labbra di Horace appena premute sulle proprie, Merope fece presto ad annullarla. Istintivamente l'accolse, la manina destra a sfiorargli la guancia frattanto che la bocca la modellava sulla sua. Come avevan già fatto, lo baciò, d'un bacio che stavolta avrebbe avuto molto di diverso, rispetto a prima. Lo baciò perchè voleva. Lo baciò per il gusto di sentire ancora il sapore della sua pelle. Il calore della sua lingua. Il respiro caldo a carezzarle il visetto da bambola. E dunque la propria, di lingua, si fece spazio tra i suoi denti, mentre un mugolio leggero le scuoteva il petto. Di nuovo quella sensazione. Di nuovo quel pizzicorio lungo tutto il corpo. Mh. Si mosse quindi, Merope, si mosse con la curiosità di una bambina di fronte ad un nuovo gioco. Evanescente come aria e difficilissima da legare, seppur l'intera sua vita l'avesse trascorsa sino ad ora in catene, senza mai -nascosta in quel suo mondo- esserlo davvero, non avrebbe saputo distinguere, cosa stesse provando. Il che era strano, per lei, Fata delle emozioni. Ma non ci pensò, la piccina, non ci pensò nel momento in cui una delle gambe l'avvicinava al fianco di Horace, spingendosi contro il suo bacino. Con la coscia morbida lo sfiorò, proprio in quel suo punto debole, e lo percepì. Rigido, duro, a tendere la stoffa scura. Quindi sorrise, sulle sue labbra, d'un sorriso che aveva forse del malizioso, mentre curiosa scivolava su di lui. Solo quando si scostò, per riprender fiato, gli era ormai addosso. E con la schiena si rimise dritta, le gambe strette attorno ai suoi fianchi, il lenzuolo adesso ricaduto alle proprie spalle. La cascata d'oro dei suoi capelli le incorniciava i lati del visino paffuto, la vestaglietta alzata scopriva buona parte delle cosce tornite, e l'intimo -rosa, merlettato- al di sotto. « Hory? » Chiese allora, mordicchiandosi il labbro inferiore, in quella domanda che sarebbe stata l'oscuro -ma nemmeno poi troppo- presagio di ciò che avrebbe fatto a breve. Pericolosamente curiosa, la manina la insinuò oltre il bordo dei boxer. « Mhm. » E lo percepì bollente, mentre le dita sottili si stringevano attorno alla circonferenza della sua eccitazione. A malapena riusciva a cingerlo interamente. « Perchè sei spesso così, con me? » Ancora seduta su di lui, lo guardava, la testolina piegata di lato e le labbra ancora umide. E forse avrebbe dovuto rispondere a quanto le avesse detto prima. Ma era fatta così, Merope. Sfuggente. Una bimba incapace di concentrarsi su un singolo input per fin troppo tempo. Quindi strinse la presa, e nel farlo sospirò, rumorosamente. Le piaceva, toccarlo. « Cosa significa? E' una cosa buona? Sembri sempre così..nervoso, quando ti succede. - E' colpa mia? » Calò lo sguardo, i denti che affondavano attraverso il labbro inferiore. Allora, curiosa, mosse leggermente il polso. Su e giù, una sola volta. « Uh. »
     
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    No. Baciare Merope non sarebbe mai potuto essere brutto. E come avrebbe potuto? Infinite volte aveva immaginato il sapore di quelle labbra, Horace. Come sarebbe stato sentire quella bocca poggiare contro la propria o scivolare lungo il profilo della propria mascella? Era dolce come sembrava al solo intravederla ad ogni sorriso, quella lingua rosea ed umida? Aveva finito con il ricercare in ogni bacio con le compagne di una sola sera una qualche traccia di quel sogno ad occhi aperti, senza tuttavia mai riuscire a ritenersi soddisfatto di quelle sostitute, tutte così diverse e lontane dalla figura angelica della sua Merope. Non si era avvicinato neanche lontanamente a quell'esperienza e quella sera, nell'averlo per la prima volta a riempirgli il palato, avrebbe scoperto come nulla al mondo avesse un sapore anche solo vagamente paragonabile a quello. Se lo sentiva ancora contro la lingua e giù, a scivolargli lungo la gola resa arida da quei pensieri così inopportuni e sporchi da renderlo in qualche modo inquieto persino nel percepirla tanto vicina, così stretti e nascosti agli occhi del mondo da quelle lenzuola profumate. Le braccia la strinsero allora di più, trascinandola con il visino tanto vicino al proprio da poterne sentire il profumo risalirgli fino al cervello, tanto intenso da stordirlo e risvegliare contemporaneamente ogni terminazione nervosa di quel corpo asciutto e così grande se messo a confronto con quello minuscolo e tanto morbido della Carrow. Approfittò dei secondi di silenzio in attesa di una sua risposta per lasciar modo alle dita avide di sollevare appena la stoffa di quella vestaglia troppo leggera, così da poter percepire contro i polpastrelli il calore della sensuale curvatura di quella schiena esile. Aveva desiderato di poterla sfiorare così per anni, eppure ancora la mente sembrava frenarlo, tentando di riportarlo ad una ragione che Horace sembrava tuttavia deciso ad ignorare con ogni mezzo. Era stato forte abbastanza da non permettere alle proprie mani di raggiungerla, alla sua bocca di non sfiorarla mai per più di qualche casto bacio contro quelle onde dorate che le adornavano il capo... ma come avrebbe potuto evitare di cedere, quando era la sua bocca a cercarlo con tanta insistenza?
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    Sentì il corpo reagire prontamente alla sua vicinanza, i boxer tesi dall'eccitazione già tanto dura da risultare a tratti dolorosa in quella gabbia, mentre ancora una volta la bocca di Merope arrivava a dannarlo. Sì, avrebbe scontato la sua penitenza tra le fiamme dell'inferno per il resto dell'eternità ritenendo tuttavia ne valesse la pena nel morire in quel nuovo bacio, ne era certo. Lasciò che le labbra si schiudessero senza opporre alcuna resistenza all'irruenza di quella lingua tanto morbida, dandole modo e maniera di poter ricercare la propria in una danza che lenta ed inesorabile avrebbe finito con lo strappargli di dosso ogni brandello di lucidità rimasta tra le sinapsi. Quando poi la sentì mugugnare dentro la propria bocca e solo allora, il Rotas sentì i contorni della propria coscienza dilatarsi fino a sparire in una nuvola di calore e desiderio tanto intenso da risultare quasi tangibile tra di loro. Era una fiamma bollente, eppure non avrebbe fatto male, no. Il bacino si mosse istintivamente in avanti, portando la sagoma ancora celata della virilità a scivolare contro la carne di quella coscia che sfregava su di lui senza alcuna pietà, mentre le mani percorrevano velocemente a ritroso la strada lungo la schiena di Merope per portare le dita ad affondare con una stretta decisa contro la morbida incurvatura delle natiche. Affondò i polpastrelli in quella pelle inesplorata per tirarla ancor più vicina nel mentre che la lingua pretendeva di scoprire e rendere proprio ogni angolo di quella bocca di rosa. Era sua. Unicamente sua. Sentì quella certezza far vibrare l'intero corpo di un'eccitazione tanto ingestibile da minacciare di distruggerlo dall'interno, aiutato in quella completa disfatta della ragione dai movimenti di quel corpicino, a quel punto intento a spostarsi su di lui. Un mugolio accaldato si riversò tra le labbra di lei nel sentirla posizionarsi sul proprio bacino mentre ancora le mani le teneva strette al suo fondoschiena, combattendo contro l'animalesco istinto di spingerla verso avanti per portarla a far aderire la stoffa di quelle dannate mutandine in pizzo contro la propria virilità. Quando la sentì allontanarsi dalla propria bocca tentò di respirare per tornare a ragionare, approfittando di quella breve tregua concessagli. Non poteva immaginare quanto si sbagliasse nel pensare che fosse una possibilità per salvarsi da se stesso. « Hory? » Era bella come non sarebbe dovuto essere possibile mentre dall'alto lo fissava con quegli occhioni enormi, colmi di un'innocenza tanto sconfinata da risultare per lui mortale se affiancata alla malizia di quel sorriso arrivato ad incresparle le labbra ancora gonfie di baci. E fu allora il suo istinto a metterlo in guardia, qualche attimo prima che quelle ditina scivolassero dispettose oltre il bordo dei boxer per arrivare a stringersi contro la carne bollente. Era in trappola. Completamente annientato. « Merope, aspetta - » Socchiuse istintivamente gli occhi mentre già i denti affondavano nel labbro inferiore fino a causare qualche dolorosa lacerazione nel disperato tentativo di trattenere l'istinto che gli urlava di strapparle di dosso ogni strato di stoffa rimasta a coprirla per potersi spingere in lei fino in fondo, lì dove la carne ancora inviolata lo avrebbe stretto ed accolto nel suo calore fino a portarlo fino al culmine del piacere. No. Le avrebbe fatto male. Non poteva. Non così. « Perchè sei spesso così, con me? Cosa significa? E' una cosa buona? Sembri sempre così..nervoso, quando ti succede. - E' colpa mia? » La sentì muoversi lungo di lui, lenta eppure tanto decisa da costringerlo a sollevare il bacino per assecondare quel primo affondo della manina, in grado da solo di portare la schiena ad inarcarsi e le dita a stringere ancor di più su di lei. Le avrebbe lasciato i segni se avesse continuato a stringerla così. « Significa che - Ah, cazzo. » Si costrinse a lasciare la presa solo per poter guidare velocemente una mano sul suo polso, così da costringerla ad allontanare il palmo dall'eccitazione ormai pulsante mentre con un colpo di reni si portava a rotolare su di lei, gettandola tra le coperte per ribaltare le posizioni. Con qualche ciocca di capelli incollata alla fronte umida di sudore si fermò per qualche secondo ad osservarla dall'alto, mentre già si premeva con urgenza tra le cosce schiuse, costringendola ad allargare le gambe il tanto necessario a fargli spazio per potersi strofinare rudemente contro la stoffa delle mutandine in pizzo rosa. « Significa che ti desidero, Merope. Che voglio entrare dentro di te mentre gemi il mio nome fino a non avere più fiato, pregandomi di spingere ancora una volta. » La mano che ancora teneva stretta attorno a quel polso tanto sottile la costrinse a sollevare il braccio sopra la testolina bionda, bloccandola in una presa ferrea tra quelle coperte sempre più calde mentre le dita dell'altra scendevano ad abbassare con una carezza la stoffa di quella vestaglia decisamente troppo leggera, fino a scoprirne i seni sodi e rosei. « Ma non posso farlo. Ti farei male, ora. Quindi Mer, ti prego, fermami. Dimmi di andare via, ora. » E del tutto in contrapposizione con quelle parole roche, ringhiate ad un soffio dalla sua bocca, tornò a spingere con ancora più insistenza il bacino contro di lei, mentre le labbra le portava invece a baciare uno di quei seni, fino a far scivolare la lingua contro la parte più dura e sensibile. Aveva il sapore del peccato, contro la sua lingua, quella principessa.
     
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    « Merope, aspetta - » Il tono di voce di lui, implorante, Merope se lo sentì vibrar dentro, ed in un sospirino strozzato, affondò maggiormente gli incisivi attraverso il labbro inferiore. Caldo. Aveva caldo. L'intero corpicino era costernato da piccole scintille che correvano attraverso ogni suo tessuto, cellula o vaso sanguigno. E mentre il petto, da sotto la vestaglietta, si muoveva velocemente, tutta quella vibrante sensazione la Fata se la sentì convergere in un punto ben preciso. , proprio in mezzo alle gambe, sotto al pizzo rosa delle mutandine. Per un attimo calò la testolina, allora, come a voler capire cosa le stesse succedendo. Sentiva la carne bollente pulsare, ed il tessuto dei suoi slip rendersi più.. Umido? Fece una smorfietta, tornando a concentrarsi su di lui e muovendosi un po', come a voler scacciar via quella sensazione così travolgente che le piaceva da impazzire ma, anche, la infastidiva al tempo stesso. Impellenza. Era impellenza, il suo fastidio. Ma questo Merope non avrebbe saputo dirlo, per tanto, quando i grandi e curiosi occhioni azzurri andaron a riposizionarsi sul volto del ragazzo, ancora sotto di lei, dovette accoglierlo impotente, l'ennesimo brivido che l'avvolse, nello scorgerlo ritirare appena il capo verso dietro e mordendosi il labbro mentre sospirava forte. Era bello, Horace, era così bello da farla tremare. E dunque caldo sentiva, Merope, , frattanto che lui fletteva il bacino tra le proprie gambe, e le sue dita si stringevan sempre di più sulla carne morbida e bollente. Affondavano, quelle impronte, nell'innocenza di quel corpicino inviolato. E forse le avrebbero lasciato il segno, forse un po' le facevano male, ma non se ne curò poi tanto. Le piaceva. Le piaceva che fosse Horace a stringerla così. Le piaceva il modo in cui sospirava, socchiudeva gli occhi, schiudeva le labbra ancora umide per implorarla di lasciargli tregua. E Merope non capiva, proprio non capiva perchè tutto questo. Non aveva mai provato sensazioni simili, prima. Ed Horace era il suo Horace, quella figura da sempre imprescindibile, in quel suo talvolta triste quotidiano. Un punto di riferimento. Una roccia. Una pietra miliare a cui aggrapparsi. Così l'aveva sempre visto, la Fata. Così era sempre stato, per lei. Eppure adesso, osservandolo nel mentre che la manina continuava a muoversi su ed attraverso di lui, avrebbe scoperto che scorgerlo così vulnerabile, beh, le piaceva. Per questo motivo fu forse un broncino, a palesarsi su quel faccino dispettosamente da bimba, quando in un movimento repentino, Horace le bloccò il polso. « Significa che - Ah, cazzo. » Le ditina si mossero a mezz'aria, la voglia di continuare a stringerlo a riverberarle dentro sì fortemente, da farla mugolare infastidita. Ma durò poco, e anzi, avvenne tutto così velocemente, che la biondina nemmeno se ne accorse. In un attimo si ritrovò completamente ribaltata nei ruoli, con la testa e l'intero corpicino ad affondare contro il materasso. D'istinto rise, chiudendo gli occhi, di una risata cristallina, sì, forse anche infantile, ma -a suo modo- tremendamente provocante. Quando poi tornò a guardarlo, Horace le era addosso. Ed era bello, bello come un dio. La pelle imperlata appena di sudore, con alcuni ciuffetti corvini appiccicati alla fronte. Lo sguardo infuocato, i muscoli del fisico asciutto ad incomberle addosso, coprendola per intero. La sovrastava senza ombra di dubbio, il Cacciatore, per questo si lasciò guidare dai suoi movimenti senza opporsi in alcun modo, persino quando il bacino di lui si spinse contro di lei, e la sua eccitazione la percepì premerle attraverso le gambe, schiuse. Ah. Un gemitino, mentre d'istinto, inarcando la schiena, aderiva ulteriormente in sua direzione, le cosce ad imprigionargli i fianchi. Sorrise e mosse le manine fameliche, senza però poter fare molto, quando fu lui, a bloccarla. E allora rise di nuovo, sussurrando un « Cosa fai, Horace? » che si sarebbe spezzato nel tono, in quello strusciarsi ancora contro di lui. Di nuovo quella sensazione. Di nuovo quel pulsare. Quel percepirsi umida, bagnata, bollente. Ed ora, come se non bastasse, un certo bisogno a riverberarle dentro così violentemente, da farle tremare le gambette. Furon dunque le parole di lui, a peggiorare di netto la situazione. Significa che ti desidero, Merope. Che voglio entrare dentro di te mentre gemi il mio nome fino a non avere più fiato, pregandomi di spingere ancora una volta. Immobilizzata, quei sussurri se li sentì danzare sotto pelle. S'insinuarono in lei, penetrandola con violenza e facendola sospirare rumorosa, all'ennesimo premersi del Cacciatore. Si morse il labbro inferiore. Era così, che ci si sentiva, nell'esser desiderate da un uomo? Era questo, che significava, impazzire e far impazzire di piacere qualcuno? E no, non qualcuno, Horace.
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    Il pensiero di avvertirlo spingersi dentro di lei, aldilà di quella stoffa che quanto mai percepiva come ingombrante, la costrinse a trattenere il fiato per un attimo. Una fitta ribollente al basso ventre, che esplose in un gemito pieno ed assai poco timido, quando -abbassata la vestaglietta- la lingua di Horace s'intrecciò attorno ad uno dei suoi seni. Respirò a fatica, tanto fu l'impeto di quel gridolino, e si contorse tutta sotto di lui, la schiena a flettersi e le gambine ad imprigionarlo ancor più. Ma non posso farlo. Ti farei male, ora. Quindi Mer, ti prego, fermami. Dimmi di andare via, ora. Ma beh, no, Merope non l'avrebbe fermato. E forse avrebbe dovuto, perchè lei era minuscola e lui enorme, in confronto. Lei era inviolata, piccola, stretta, e lui al contrario vigoroso, tremendamente duro, brutale - probabilmente. Continuava a sentirlo spingere tra le sue gambe, l'apice della sua eccitazione a fare attrito contro la stoffa delle mutandine che si ripiegava sempre più, permettendogli -a suo modo- d'addentrarsi appena. Anche soltanto così, le faceva male, ma, ahimè, questo non la spaventò. Non la fermò. Perchè Merope scosse la testa, il petto che si muoveva velocemente sotto la bocca di lui, mentre quella frenesia esplodeva, oramai, ovunque. « No. » Disse dunque, decisa, seppur in un anelito di fiato. « Fermo. » E forse tanto bastò a far vacillare l'impeto del Rotas, perchè tentando di divincolarsi dalla sua presa, ci riuscì. Le manine dunque si mossero, scorrendo lentamente sulla schiena di lui che era così imponente, in confronto a lei, da nasconderla per intero al mondo circostante. Mordicchiandosi il labbro inferiore la testolina l'abbassò, come a voler controllare ogni sua mossa. In un sospiro, allora, le ditina sottili le poggiò sulle natiche del moro, imprimendo una non troppo accennata pressione per spingerlo verso di sè. Tornando a guardarlo, la bocca semiaperta, virò in avanti, con la mancina che andava ad insinuarsi -e di nuovo- sotto la stoffa dei boxer. Più decisa e sfrontata, stavolta, lo chiuse tra le dita, stringendo la presa quel tanto che le fu necessario per costringerlo a guizzar fuori. Deglutendo, impaziente e sempre più avida, la mano libera l'arpionò sul lembo dei propri slip, che scostò di lato. E allora così, indirizzandolo, se lo premette addosso. Attraverso. Un gemito, squillante e rumoroso, a spezzare il silenzio sempre più rovente. Non sarebbe entrato in lei, Horace, anzi sarebbe stato in vero difficile farlo, tant'era piccina, ma comunque l'estremità della sua eccitazione venne avvolta dal calore umido della propria carne, in quell'anticamera che lo separava ancora dalle porte dell'Inferno. Tremò e strinse gli occhi per il leggero dolore, che tuttavia pose in secondo piano, quando disse, impudente. Cazzo. La lingua schioccò al palato, percorrendo ogni sillaba di quella parola, lentamente. Mi piace quando dici le parolacce. Col bacino dunque si mosse, la loro vicinanza a rendersi sempre più pericolosa. Di nuovo ansò - e ridacchiò, come una bambina. Me le dirai anche quando sarai dentro di me? Stava giocando col fuoco, la Fata. Stava decisamente giocando col fuoco, le dita ancora strette contro di lui, ma questo non poteva saperlo. Non ancora. Allora mosse il polso su e giù, ed un'altra volta se lo spinse tra le gambe. Tu le vuoi dette, mentre gemo il tuo nome e ti prego di non fermarti dallo spingermi dentro - Pausa. - Hory?
     
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    Non aveva mai osato che i suoi pensieri si spingessero così oltre Horace, certo che a permettere alla mente di guidarlo in visioni tanto intime e compromettenti di quel corpicino puro ed inviolato, non sarebbe più riuscito a tornare indietro. Aveva a volte immaginato come potessero suonare alle orecchie i gemiti di Merope, sì... e tuttavia aveva bruscamente interrotto ogni possibile divagare di quelle fantasie quando era stata una fugace visione della sua pelle nuda a raggiungerlo. Digrignando i denti aveva giorno dopo giorno tenuto quei desideri incatenati, ben chiusi in una cassaforte di cui avrebbe lui stesso gettato via le chiavi per non cedere alla tentazione di sbirciare al suo interno. Merope era la sua luce nelle tenebre, la sola divinità a cui il Rotas avesse mai permesso di ascoltare le sue preghiere nelle notti troppo buie per allontanare i demoni mentre protendeva costantemente le mani verso la radiosa figura in cerca della benedizione del suo tocco contro la carne intrisa di peccato. In ginocchio al suo cospetto, quell'uomo agli occhi altrui tanto forte e letale aveva sussurrato profani giuramenti di fedeltà eterna, del tutto piegato dall'unica necessità di potersi dimostrare degno della sua vicinanza. Ma no, il cacciatore non sarebbe mai stato all'altezza. Non era abbastanza per quegli occhi di bimba, non gli sarebbe dovuto essere permesso nutrirsi di quella perfezione nascosta tra le labbra carnose. Come era possibile che fosse reale, allora, la realtà che i suoi occhi gli riportavano in quella notte fuori dai confini del mondo? Quale dannazione avrebbe atteso il peccatore tanto avido da arrivare a posare le mani, le labbra e la lingua addosso alla carne della propria Santa? E chi mai avrebbe osato poi assolverlo dal peccato che lo portava a macchiare quella perfezione non più con le sue insulse preghiere, ma con ansimi bollenti? Ma Merope era così calda ed arresa sotto di lui da rendere a quel punto impossibile il solo pensiero di allontanarsi volontariamente da lei. La implorò di mostrarsi allora misericordiosa, comandandogli di fermarsi ed andar via. Salvando la sua anima destinata alle fiamme dell'inferno. O forse, persino in quel caso, sarebbe ormai stato per lui troppo tardi. Sì, perché la sua lingua era già scivolata a saggiare il sapore di quei seni floridi, permettendogli di affondare tra di essi il volto. I denti si chiusero con bramosia attorno a quel piccolo bocciolo rosato che ne segnava la sommità palpitante, tirandolo avidamente tra le labbra per poterne succhiare via il sapore, reso ferale nei movimenti ed ancor più rude dal modo in cui il suono prodotto dalle labbra tremanti di Merope sembrò far tremare l'intera stanza ed il suo corpo teso allo spasmo, costringendo il bacino a premersi con ancor maggior urgenza tra quelle gambette tremanti alla ricerca del suo calore. Riusciva a percepirlo persino attraverso quegli strati di stoffa ormai umidi quanto fosse pericoloso e mortalmente irresistibile il richiamo di quella carne bollente. Prometteva la dannazione eterna, quell'umida eccitazione a stento celata dalle mutandine in pizzo su cui la virilità ormai tesa allo spasmo continuava a premere addosso nel disperato tentativo di raggiungerla, sfregando contro di lei con spinte sempre più esigenti e smaniose. Era a quel punto del tutto estraneo, Horace, al pensiero di nasconderle in qualche modo quanto il suo corpo desiderasse sprofondare dentro di lei fino a riempirla completamente, reclamando come propria quella stretta verginea che mai nessun uomo prima di lui aveva potuto sentire addosso. Le dita che ancora le bloccavano sopra il capo il braccio si strinsero con maggior forza attorno al polso esile, intrappolandola tra quelle lenzuola sfatte e sotto di lui. La lingua scivolò lentamente nello spazio tra le morbide curve dei seni e più su, lungo il profilo morbido del collo niveo, fino a condurlo ad un soffio dal piccolo orecchio. « Sto per impazzire. Lo senti, non è vero? Devi fermarmi prima che sia troppo tardi. Non riesco a lasciarti andare. Ti farò male, ti - » Ansimò contro il suo lobo, il fiato bollente ad agitare qualcuna di quelle ciocche bionde mentre i denti saggiavano la consistenza della pelle sensibile appena dietro l'orecchio. « Voglio solo strapparti di dosso quelle fottute mutande e scoprire quanto sei calda, quanto sei bagnata al solo pensiero di avermi dentro di te. Ti prego Merope, dimmi di andar via. » « No. Fermo. » Ogni muscolo sembrò bloccarsi di colpo, mentre un gemito strozzato di sollievo arrivava prontamente in risposta a quelle parole sussurrate dalla piccola con appena un filo tremante di voce. Sentiva la virilità pulsare dolorosamente, ancora premuta su di lei, reclamando un contatto ancor più intimo, mentre l'intero corpo urlava al solo pensiero di lasciarla andare, ribellandosi a quella che era tuttavia l'unica via percorribile.
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    Era inevitabile. Con uno sforzo che sembrò imperlargli la fronte di sudore più di ogni movimento compiuto fino a quel momento il moro le tolse le mani di dosso, piantandone i palmi ai lati del visino accaldato della Carrow per poter esercitare la spinta necessaria a liberarla dall'incombenza del proprio corpo. Tentò di immettere nei polmoni più aria possibile respirando a fatica tra i denti serrati. Era giunto il momento di tornare alla realtà. Sul punto di rotolarle al fianco, così da poter concedere ad entrambi il tempo necessario per tornare a respirare, si concesse un ultimo sguardo alla sua figura sotto di sé. Ne osservò i seni scoperti ed ogni goccia di sudore rimasta ad impreziosirle la pelle arrossata dalla passione e tentò di imprimersi a fuoco nella memoria come fossero gonfie ed umide quelle labbra socchiuse ed appena tremanti. Bastò quell'attimo di esitazione per permettere a Merope di stringere le manine contro le natiche del cacciatore, trascinandolo nuovamente fino al girone più profondo dell'inferno. Come aveva potuto pensare anche solo per un secondo che potesse esistere una possibilità di salvezza per la sua anima? Gli occhi affilati tornarono a chiudersi con forza nel sentire nuovamente quelle dita sottili scivolare oltre il bordo dei boxer scuri ed a reclamare quella carne che Merope sembrava intenzionata a reclamare. Come se non le appartenesse già completamente. « Non farlo, così- » morirò. Ringhiava, più simile ad una bestia che ad un uomo a quel punto, tentando di opporre resistenza a quell'inevitabile sconfitta che già sentiva serpeggiare in ogni centimetro di carne, mentre tuttavia la giovane rimaneva crudelmente sorda alle sue preghiere ed anzi. Con mosse veloci decretava la sua fine. Si sentì scivolare per qualche centimetro dentro di lei mentre teneva ancora gli occhi ben chiusi, il capo abbassato sul petto ed i capelli a coprirne quasi completamente la vista a quegli occhioni cristallini, così che non potesse osservarne l'incresparsi animalesco delle labbra contro i denti serrati. Era così bagnata, Merope, così stretta e piccina da risultare dolorosa contro la virilità marmorea che premeva contro di lei. « Cazzo. Mi piace quando dici le parolacce. Me le dirai anche quando sarai dentro di me? Tu le vuoi dette, mentre gemo il tuo nome e ti prego di non fermarti dallo spingermi dentro, Hory? » No. Era troppo tardi. Non esisteva più alcuna salvezza, non per lui. Gli occhi tornarono ad aprirsi di scatto, catturando quell'espressione divertita a fronte del suo tormento. Sorrideva Merope, crudele, mentre il cuore gli esplodeva in petto ed il corpo prendeva il sopravvento su ogni buona ragione urlata dalla mente per costringerlo a scappare da lei. Con uno strattone deciso della mano strappò via uno dei piccoli fiocchi sui lati del suo bacino, così da spogliarla completamente da quelle mutandine che si era limitata a scostare di lato. « Non riuscirai a far altro che urlare il mio nome, piccola mia. Mi dispiace così tanto. » Ed allora perché sembrava tanto più simile ad una vera e propria minaccia, che a delle sincere scuse? Con un movimento repentino alzò il busto per inginocchiarsi tra quelle gambette pallide, le mani enormi che già afferravano i fianchi morbidi per tirarsela addosso con uno strattone deciso, che l'avrebbe portata a scivolare con la schiena su quelle coperte ormai bollenti. Lasciò poi che le dita scivolassero lungo il profilo dei polpacci pallidi, affondando nella carne per guidarla a sollevarli fino a poggiarli contro le spalle nervose, così da aprirsi completamente a lui. « E non potrai più dirmi di fermarmi ora, per quanto male faccia... perché continuerò a spingermi dentro di te, Merope, fin quando non ti avrò riempita completamente. Fin quando penserai di essere sul punto di svenire. Fin quando non mi odierai. » La prima spinta del bacino lo portò ad affondare in lei per ben meno della metà dell'intera virilità. Era troppo stretta, Merope, così piccina in confronto a lui che per quanto bagnata risultasse sarebbe stato impossibile spingersi completamente in lei tanto in fretta. E faceva male, sì, in quella stretta che lo avvolse contro la carne pulsante e gli strappò di bocca un gemito strozzato mentre dall'altro osservava il suo visino contorcersi in quel mare di sensazioni che dovevano animarla in quell'esatto momento, nel sentirlo scivolare in lei per la prima volta. « Dillo, Merope. Urla il mio nome. Maledicimi. » Le mani le impedirono di ritrarsi ed anzi, guidarono i fianchi ad andar incontro alla seconda spinta con cui riuscì ad entrare in lei per metà. Scariche elettriche risalirono lungo la schiena enorme, irrigidendo ogni muscolo teso allo spasmo. Affondò i denti contro il polpaccio che ancora la costringeva a tenere sulla propria spalla, macchiandone la pelle di desiderio e follia. « Ormai sei mia. » Un'ultima spinta. Era completamente dentro di lei.
     
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    Sto per impazzire. Lo senti, non è vero? Devi fermarmi prima che sia troppo tardi. Non riesco a lasciarti andare. Ti farò male, ti - Voglio solo strapparti di dosso quelle fottute mutande e scoprire quanto sei calda, quanto sei bagnata al solo pensiero di avermi dentro di te. Ti prego Merope, dimmi di andar via. Forse avrebbe dovuto aver paura. Forse avrebbe dovuto fermarlo davvero, Merope, col senno di poi. Ma troppo incosciente, troppo bimba, davanti a quelle parole ridacchiò, decidendo di condannare entrambi con quanto avrebbe -dispettosa- fatto a breve. Era tutto un gioco, per lei. Tutta una nuova, strana, forse dolorosa ma non per questo meno eccitante, avventura. E così se lo spinse tra le gambe, la Fatina, con gli occhietti che si stringevano nel percepire l'estremità della virilità di lui collidere contro le proprie, microscopiche e mai violate, pareti. Era grande e grosso, Horace, rispetto a lei - in tutto e per tutto. E chissà, forse un'altra persona (di certo più assennata), nelle sue condizioni avrebbe quanto meno pensato alle conseguenze di quanto stessero facendo.. - Ma Merope no. Non lo fece e non lo avrebbe fatto, fino a quando non avrebbe ottenuto ciò che voleva. Egoista, chissà, stronza. Tanti eran gli aggettivi che le si sarebbero potuti attribuire, visto il sentimento che -da sempre- il povero Rotas aveva nutrito nei suoi riguardi. Stava decidendo, volutamente, la piccina - di portarlo sull'orlo di un baratro dal quale sarebbe stato difficile, se non impossibile, uscirne fuori vivo. Non lo sapeva, questo è chiaro, ma a provocarlo sì subdolamente, costringendolo a farle male, avrebbe con ogni probabilità distrutto il povero cuore del Cacciatore. L'indomani, o addirittura tra qualche ora. Ma a questo Merope non pensava, mentre le ditina sottili della mano sinistra continuava a stringerle contro l'asta della sua eccitazione, strusciandoglisi sopra quel tanto che sarebbe bastato e bastava ad entrambi per sospirare e morire un po'. Perchè se sì, da un lato lo sentiva davvero, l'effetto che gli provocava, dall'altro riusciva a percepire le proprie, di nuove e quanto mai esplosive sensazioni. Era accaldata, la biondina, con scosse elettriche che le percorrevano l'intero corpicino. La carne bollente tra le sue gambe pulsava convulsamente, stringendosi sull'altro quasi a non volerlo lasciare andare. Quasi a volere di più, molto di più. Ed era un sentire tutto nuovo, per lei, che forse da un certo punto di vista la infastidiva pure. Bruciava dentro, bruciava nel suo centro. Horace le faceva male, anche solo così. Ma chissà, forse perchè al dolore c'era abituata, forse perchè tremendamente incosciente, Merope non aveva paura. E continuò. Non farlo, così- Continuò persino al fronte delle suppliche di lui che, sordamente, avrebbe ignorato. Le piaceva, vederlo così. La sovrastava, coprendola per intero, tant'era piccina. E Merope mai, mai avrebbe potuto immaginarselo sotto un tal punto di vista. Da sempre, Horace era stato il suo più caro amico. Un protettore. Un fratello. Un principe. Ed i principi non si facevan vedere così..vulnerabili. I principi non si spingevano con violenza tra le gambe delle principesse, implorando pietà ma promettendo, al tempo stesso, tutt'altro che misericordia. « Così cosa? » Chiese allora, cristallina, ancora quel sorrisetto dispettoso a distenderle le labbra carnose. E fu a quel punto dunque che, ormai dannato, Horace agì. Rimase immobile sotto di lui, la biondina, osservandolo da laggiù coi grandi occhioni azzurri. Curiosa, era curiosa. Per questo non lo lasciò andare per un sol attimo, saggiandone ogni movimento. Ogni dettaglio. Aveva l'espressione contrita, il Cacciatore, con le labbra arrossate tanta era la foga con cui le aveva strette tra i denti, durante quella sua tortura. Alcuni ciuffetti di capelli appiccicati alla fronte. Neri, cobalto, rispetto alla pelle assai più chiara. Lo sguardo affusolato era di fuoco - come di fuoco era tutto il resto. Perchè sì, mai come in quel momento Merope lo vedeva bello come il Sole. Giallo. Arancione. Rosso. Fiammelle si protraevano da ogni angolo di quel fisico teso e guizzante. Gli percorrevano le braccia muscolose, la curva del collo, le spalle e quegli addominali sui quali pensò, per un fugace attimo, di voler passarci sopra la lingua. Chissà che sapore doveva avere, Horace. Aveva già saggiato le sue labbra. Ma il resto del corpo? Il collo, per esempio. Il petto. La sua virilità. Ma non ebbe troppo il tempo di pensarci su, nè di azzardare chissà quale altra mossa per scoprirlo effettivamente, che le dita affusolate dell'altro furon su di lei. Con un movimento che aveva dell'animalesco lui le slacciò uno dei laccetti dell'intimo rosa, scoprendola completamente. Non riuscirai a far altro che urlare il mio nome, piccola mia. Mi dispiace così tanto. Nell'esatto momento in cui lo vide inginocchiarsi sul materasso, quindi, per tirarsela addosso attraverso i fianchi, Merope sobbalzò, con un gemitino a scuoterle il petto ormai nudo sotto i lembi della vestaglietta abbassata. Percepì -di nuovo- l'estremità della sua mascolinità sgusciarle dentro, dolorosamente, e si morse il labbro inferiore con una certa foga, senza mai staccare lo sguardo dal suo viso ed il suo agire. Le piaceva, vederlo acceso. Le piaceva, la consapevolezza di essere così desiderata dall'altro, da renderlo tanto simile ad una bestia. Da risvegliare in lui istinti sì tanto primordiali da riporre in un angoletto quanto per lei provasse, e quanto pericoloso fosse spingersi oltre, pur di farla sua. Dunque di nuovo ridacchiò, stavolta ansimante nel tono appena strozzato, quando il Rotas la costrinse a poggiargli le gambine sulle spalle, schiudendola a sè. E non potrai più dirmi di fermarmi ora, per quanto male faccia... perché continuerò a spingermi dentro di te, Merope, fin quando non ti avrò riempita completamente. Fin quando penserai di essere sul punto di svenire. Fin quando non mi odierai. Il bacino compresso, le cosce tornite su di lui, il corpo massiccio dell'altro tra le proprie gambe, fu un gemito pieno ciò che riverberò nel silenzio bollente, quando la prima spinta condusse l'eccitazione del Mago ad insinuarsi in lei per ben che meno della metà. Ah. Calò lo sguardo, come a voler vedere cosa stesse succedendo laggiù. Da cosa derivasse quella lancinante fitta di dolore che la fece rabbrividire, istintivamente. La carne umida e febbricitante lo strinse tra le proprie convulse pareti sin da subito, ottemperando una resistenza che sarebbe stato complicato -ma forse nemmeno poi tanto- oltrepassare. Hor- La seconda spinta, stavolta più profonda, le strozzò il fiato in gola. -ace. E col corpicino a questo punto si lasciò andare sul materasso, chiudendo le dita contro il lenzuolo, che si stropicciò sotto la sua presa. Strinse gli occhi, piegò le sopracciglia e s'incarcò con la schiena. Faceva male. Dillo, Merope. Urla il mio nome. Maledicimi. Fece per muoversi e sfuggirgli, forse più per istinto di sopravvivenza che per reale voglia di allontanarsi, ma lui glielo impedì, premendole con forza le mani attorno ai fianchi per spingerla ulteriormente contro di sè. Ormai sei mia. E quando dunque fu interamente dentro di lei, fu un vero e proprio urlo ciò che scosse il petto della Fata. Gli occhi le si riempirono di lacrime, mentre il fisico minuto si contorceva, come a volersi ribellare a quella dolorosa intrusione. Le pareti della sua verginità si lacerarono, lasciandolo sprofondare sempre più in fondo, sino a riempirla completamente. Violente fitte si protrassero un po' ovunque, in lei, a partire dal suo centro sino ad irradiarsi attraverso ogni tessuto o cellula. E forse avrebbe dovuto dirglielo, che faceva davvero troppo male. Forse avrebbe dovuto chiederglielo, di fermarsi, mentre quel bollente e viscoso cremisi cominciava a colare tutt'attorno a lui, prossimo a sporcarli entrambi. Ma non lo fece. No, seppur il suo corpo implorasse pietà, con quella violenta intrusione che riusciva a percepirsi sino in fondo alla pancia, Merope non glielo chiese. Al contrario gemette, convulsa, quando i denti dell'altro le sporcarono la pelle diafana della gamba, e la prima spinta cominciava a riverberarle dentro con così tanta veemenza da farla tremare nell'intero corpicino. Urlò di nuovo, e lo chiamò questa volta. Horace. Gli occhi lucidi li chiuse, le labbra le strinse contro i denti, il bacino lo protrasse in sua direzione. Ed Horace continuò a spingere. Spinse, scavò dentro di lei con ogni affondo che era come una coltellata. Laceranti fitte si protrassero lungo tutto il suo ventre ed il suo stomaco, ove le pareva di sentirlo collidere, mentre rosso proseguiva a colargli sopra. Sporcando lui, sporcando lei. Ed avrebbe continuato a chiamarlo, ad urlare il suo nome, con sospirini sempre più pesanti e concitati, man mano che la carne bollente della propria ormai strappata verginità s'avvolgeva attorno a lui, modellandosi a sua immagina e somiglianza. Sempre più umida, dall'eccitazione e dal sangue, sussurrò, in un mugolio. Fa male. Ma poi, bollata di quel pericoloso dualismo tipico dei bambini, aggiunse. Più forte. Sussultò, il fiato le si bloccò in gola. Horace, più forte. Voleva saperlo. Voleva vedere quanto oltre un uomo potesse spingersi nel possedere una donna. Quanto potesse far male. Fin dove sarebbe arrivato. Fin dove l'avrebbe costretto, il povero Rotas, prima di fargli perdere completamente la testa. Prima di condannarlo in eterno. Ed allora continuò a gemere ed urlicchiare, l'intimità che si contraeva ad ogni affondo, in una morsa convulsa, stretta, implorante. La stava distruggendo.
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    La stava possedendo. Ed una tal consapevolezza, seppur inaspettata, la condusse a rabbrividire, violentemente e -per un attimo- riuscì a percepirlo quel qualcosa di diverso. Oltre le fitte, oltre al bruciore, intravide una sensazione di calore che portò il suo petto a riverberare di un mugolio più profondo di altri, mentre le prime note di un piacere nato dal più primordiale spasimo s'insinuava lungo ogni muscolo del microscopico organismo. Ancora si trascinava su e giù sul materasso, la virilità di Horace a farsi spazio dentro di lei scuotendo ogni sua parte, quando, allora, sussurrò. Ti piace, Hory? Il tono strozzato, un ansimo ad ogni parola. Ti piace scoparmi così forte? E non era un intento di mostrarsi eccitante in quelle peccaminose parole, il suo. Il che rendeva il tutto forse ancor peggio. No, Merope glielo chiedeva con la stessa innocenza mediante la quale gli aveva chiesto altre volte quale vestitino le stesse meglio. O quale fosse il suo gusto preferito di gelato. Per questo motivo ridacchiò pure, seppur il suo faccino fosse contrito dallo sforzo ed ogni angolo del corpo diafano ormai madido di sudore. Il fuoco di lui a scorrerle attraverso ogni tessuto. Perchè credo - un gemito - a me stia piacendo. Anche se, ah - piano. Piano. Non lo disse per fermarlo. Quasi più per compiacerlo. - Fa male. Sono come mi immaginavi? I grandi occhioni curiosi furon su di lui. Un sorriso che aveva adesso del malizioso a tingerle il faccino arrossato. Aveva capito, Merope. Aveva capito cosa volesse dire il suo esser sempre così.. - teso, in sua presenza. "Significa che ti desidero, Merope." E allora, cattiva, glielo ritorse contro.Vieni? Si mosse a quel punto col bacino, vibrando sotto di lui, ormai quanto mai duro dentro di lei. Voglio vederti venire. Dove? Di nuovo la voglia di farlo impazzire. Di nuovo il desiderio d'accoglierlo. Ovunque. E non le sapeva, Merope, certe cose. Non aveva mai visto un uomo nudo, non aveva mai ricevuto baci sulla propria pelle. Sospiri. Ansimi. Eppure aveva letto qualcosa. Aveva sentito parlare i suoi fratelli, nascosta in un angoletto di quella desolata stanza. Sempre troppo silenziosa, per darle adito ed importanza. Ma ciò nonostante importanza ne aveva sempre avuta troppa, l'innocente e quanto mai impensabile Merope, che aveva assimilato verità e discorsi. Fatti e peccati. Persino con Horace. Annabelle, per esempio. L'aveva intravista sul corridoio una volta, giunta troppo in anticipo a casa Rotas - e se n'era accorta, dell'ombra di un'eccitazione ancora non del tutto sfumata a gravare sulla sua pelle ambrata. Ombra che le aveva sussurrato cose. Ombra che le aveva rivelato cose. Al fronte di tutto questo, allora, disse. Dove vuoi venire, Hory? Dove te lo immaginavi? - In bocca? Le braccine le alzò, arpionandosi al suo petto per un attimo, facendo sì che -nel movimento- lui le affondasse ancora più tra le gambe. Gemette, forte. O dentro? Si lasciò nuovamente andare contro il materasso. Il corpicino ormai esausto, sotto la veemenza dell'altro. Ma la mente.. - No, la mente no. La mente voleva di più. Voleva il massimo. Sì, vienimi dentro. Un ditino se lo insinuò attraverso le labbra, incastrandolo tra i denti.
     
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    Era stato bello riuscire a credere - seppur mai completamente - di poter in qualche modo meritare il titolo di cui Merope lo aveva investito. Il suo principe dalla Corona d'Oro. Horace si era crogiolato nel pensiero che fin quando fosse rimasto al suo fianco, proteggendola da ogni male, allora tenerle nascosto di come sotto l'armatura scintillasse dimorasse un orco fosse in realtà una bugia perdonabile. Se avesse mantenuto abbastanza a lungo quella farsa senza mai sbagliare, allora forse il mostro avrebbe finito con il trasformarsi effettivamente in un principe degno dell'amore della sua principessa. Cazzate. E dire che tra i due, era sempre stata la Carrow quella immersa in un mondo fatato e tanto lontano dalla realtà che li circondava ogni giorno... doveva essere a dir poco una visione patetica allora vedere un uomo tanto grande e logico perdersi dietro a simili sogni privi di ogni ragione d'essere. I mostri non si trasformavano in eroi, lo sapevano tutti, ma finivano con l'essere uccisi dalle loro spade affilate per proteggere il cuore della Bella. Alla fine la natura crudele di un orco avrebbe immancabilmente avuto il sopravvento su ogni possibile buona intenzione e quelle mani che aveva giurato di usare unicamente allo scopo di difendere la principessa avrebbero invece macchiato la pelle dei peggiori peccati immaginabili. Le zanne pronte a dilaniare chiunque tentasse di ferirla si sarebbero rivoltate verso di lei per morderla e dilaniarla. Non era una questione di se ma di quando. E la risposta risiedeva in quella notte, tra quelle mura tra cui le urla di Merope rimbombavano come unico sottofondo alla morte del cuore di Horace. Morì tra quelle lenzuola sfatte ogni possibile sogno di redenzione, mentre i sentimenti venivano soffocati in nome del bestiale istinto di reclamare la propria preda. Era così piccina la bionda, sotto di lui. Così morbida e calda, con gli occhioni colmi di lacrime bollenti ed il petto agitato dall'affanno. E fu come se l'odore del sangue che avrebbe dovuto sì metterlo in allerta di quanto fosse sbagliato quello che stava facendo, finisse invece con il risvegliare completamente l'istinto predatorio del Rotas. Lo avvertì scivolare lungo la propria virilità il vermiglio pianto che segnava la fine dell'innocenza della ragazza, appiccicoso contro la carne pulsante e marmorea. La sua più grande sconfitta. Ed avrebbe dovuto fare i conti con ognuno dei propri crimini, Horace, appena la mente fosse riuscita a riprendere il dominio di quel corpo teso in un fascio di nervi. Ma di lui non rimaneva più nulla. Nessun senso di colpa o ripensamento. Nessuna esitazione. Non si fermò dal muoversi quando l'eccitazione turgida fu completamente dentro di lei per darle modo di riprendere fiato o per pietà, ma solo per poter godere dall'alto della vista del suo dolore. Con le labbra arricciate a snudare le zanne e lo sguardo colmo di tenebre che promettevano la dannazione eterna rimase immobile tra le cosce tremanti per il tempo necessario a riempirsi la mente dei piccoli movimenti del corpicino stremato mentre tentava di ritrarsi e scappare da lui che tuttavia le teneva saldamente le mani strette ai fianchi, così da negarle qualsiasi via di fuga. Mentre la sottometteva ai propri desideri con ferocia e la lingua la passava ferino sui denti, pregustando il piacere della vittoria. « Dillo. Dì il mio nome. » Ringhiò, il petto e la gola a vibrare ad ogni suono prodotto dalla voce tanto roca da sembrare risalire direttamente dagli inferi per giungere fino alle orecchie di Merope mentre ancora non accennava ad indietreggiare di un solo centimetro da quella carne fradicia e martoriata ed il sangue scivolava tra di loro fino alle coperte candide, macchiandole senza che nessuno dei due lo notasse. Horace. Sorrise, allora, bello come un Dio e terribile come il più crudele Demone, solo in parte soddisfatto dal tono implorante con cui il suo nome venne pronunciato da quella boccuccia tanto invitante.
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    Fu tuttavia abbastanza per convincerlo a cominciare la caccia. Le dita percorsero avidamente la forma di quelle gambette che la Carrow ancora teneva poggiate contro le spalle nervose fino a serrare le mani in una presa ferrea attorno alle caviglie nivee, costringendola poi con uno strattone a divaricarle ulteriormente, così che quando il bacino si mosse per lasciar scivolare la virilità umida dei suoi umori e del sangue quasi completamente fuori dalla carne, risultasse del tutto schiusa a lui, pronta ad accoglierlo fino in fondo in quella spinta con cui tornò a reclamare le sue urla, il piacere e la sua anima. Scavò dentro di lei senza alcuna premura, al solo scopo di possedere e far proprio ogni centimetro di quella femminilità appena sbocciata su cui nessuno avrebbe osato reclamare alcun diritto dopo di lui. Spinse la virilità marmorea dentro di lei di volta in volta ritraendosi quasi completamente per il solo gusto di donarle una fittizia sensazione di sollievo tra una spinta e l'altra. La rese sua con violenza, quasi cercasse di arrivar fino all'anima con ognuno di quei possenti movimenti privi di pietà. Non esisteva più alcun Horace, né alcuna Merope. Era la fiera intenta a sbranare la povera preda. Le zanne a strappare brandelli di carne mentre ancora le urla disperate chiedevano aiuto in quel bosco dove nessuno sarebbe arrivato in suo soccorso. Era la fine della fiaba, l'ultima pagina macchiata di lacrime e sangue. « Fa male. Horace, più forte. » Un gemito bollente rispose a quelle parole in grado di rendere la sua fame ancor più ingestibile, quasi il Rotas fosse a quel punto del tutto incapace di pronunciare una sola parola. Le bestie non parlano, infondo, ma ringhiano. E che la preda chiedesse al cacciatore di affondare con ancor più forza il coltello nella carne martoriata era del tutto assurdo, eppure tanto eccitante e primordiale da rendere ogni movimento ancor più profondo e spietato. Infondo persino in quella follia ogni desiderio della sua principessa rimaneva un ordine. « Ti piace, Hory? Ti piace scoparmi così forte? Perché credo a me stia piacendo. Anche se, ah - piano. Piano Fa male. Sono come mi immaginavi? » Avvertì ognuna di quelle parole scivolargli sotto pelle come scosse elettriche pronte a risvegliare ogni terminazione nervosa del corpo teso dallo sforzo. Stava per venire. Gli bastò invero sentire quelle parole tanto sporche abbandonare quella bocca da bambina per essere costretto ad inalare violentemente aria tra i denti serrati e chiudere gli occhi di scatto per poter far fronte a quella sensazione di ingestibile calore arrivata improvvisamente ad irrigidirgli i lombi. « Zitta, Merope. Stai zitta. » Le intimò tra gli ansimi, comandandole di tener la bocca chiusa per la prima volta in così tanti anni che se solo avesse notato la crudeltà di quel repentino cambiamento nel proprio tono di voce, forse avrebbe perso ogni desiderio di vivere. « Mi stai uccidendo. » Ma no. Merope non diede retta a quell'avvertimento, a quell'implorazione strozzata. Ancora una volta rise di lui, prendendosi gioco della sua caduta. « Vieni? Voglio vederti venire. Dove vuoi venire, Hory? Dove te lo immaginavi? - In bocca? O dentro? Sì, vienimi dentro. » No. Quanto ancora sarebbe stato in grado di resistere? Quanto ancora la mente avrebbe retto prima di frantumarsi in schegge affilate pronte a conficcarsi nel suo cuore già sanguinante? Eppure fin quando il corpo avesse continuato a muoversi, vincendo su qualsiasi ragione, allora i pensieri sarebbero rimasti tanto lontani da non riuscire a raggiungerlo. Fu quindi la necessità di non fermarsi a portare il cacciatore, contro ogni previsione, a scivolare completamente fuori da quell'umida carne. La virilità era a quel punto tesa al punto da risultare dolorosa, così vergognosamente macchiata dal sangue di Merope. « Credi abbia già finito, con te? » Ancora sovrastandola, fermo tra le sue cosce schiuse, la fissò con gli occhi colmi di una ferocia che avrebbe convinto persino uomini adulti ed abituati al combattimento a fuggire. « Perché ho appena iniziato. » Ma le mani le teneva ancora strette alle sue cosce, Horace, così da impedirle di poter scappare da lui. Come fosse priva di peso la afferrò allora per la vita e con un movimento privo di gentilezza la costrinse a carponi tra quelle coperte macchiate di piacere e di sangue. Non le diede il tempo di poter alzare il visino improvvisamente premuto contro il materasso, o di poter puntellare i gomiti per cercare una stabilità che le permettesse di prepararsi. Sì, perché mentre una mano la stringeva su una di quelle natiche piene, l'altra il Rotas la avvolse contro la base della propria virilità per potersi guidare nuovamente dentro al suo calore, tornando a spingersi completamente in lei ancora una volta. Non si fermò, non questa volta. Prese al contrario da subito a muoversi fin quando non fu il rumore del bacino a battere forsennatamente contro il didietro di lei a riempire l'intera stanza. « Sei mia Merope. Voglio sentirtelo dire. » Con dita sporche di sangue affondò tra quelle onde dorate che erano i suoi capelli, tirandoli verso indietro mentre ancora scavava dentro la carne. La stava marchiando.
     
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    L'avrebbe presto capito, la piccola Fata, che a giocare troppo col fuoco ci si finisce sempre per bruciarsi. Ma si sarebbe in vero rivelata una consapevolezza che sarebbe giunta lentamente, nella razionalità nascosta di quella mente compromessa. Ed allora, ancora sotto di lui, Merope continua a giocare. Le gambine poggiate sulle spalle del Cacciatore, percepiva ancora la sua carne bollente e marmorea scavarle dentro senza alcuna pietà. Era minuscola la piccina, in confronto all'uomo, tanto che ogni affondo riusciva a sentirselo riverberare sino in al limitare di punti che nemmeno avrebbe mai considerato d'avere. E continuava a farle male, continuava a bruciare, ma non era intenzionata per questo di smettere di giocare. Allora avrebbe riso, ancora una volta, lasciando che le note cristalline della propria risata collidessero sul volto del Rotas come un vero e proprio guanto di sfida. Sfida che avrebbe perseguito a portare avanti, tra una coltellata e l'altra, persino quando il suo carnefice, sfinito da una preda sin troppo difficile, le avrebbe chiesto di fare silenzio. Zitta, Merope. Stai zitta. E forse avrebbe dovuto spaventarsene, di quel tono che le rivolse, lui. Lui che mai aveva alzato la voce con lei. Lui che le si era sempre rivolto con tenerezza e premura, nonostante fossero -con ogni probabilità- sentimenti che assai poco gli appartenevano. Sì, Horace era sempre stato dolce, con lei. Li ricordava tutti, i loro momenti, la piccola Carrow. Quella volta in cui gli aveva infilato a forza un cappellino da Babbo Natale, per esempio, costringendolo a scattarsi una foto che avrebbe postato sul proprio profilo. O quell'altra in cui se l'era portato dietro in un negozio di giocattoli babbano, nei quali corridoi aveva scorrazzato come una bambina, riempiendogli le braccia di questo o quel pacchetto e -sul finire- facendolo uscire abbracciato ad un enorme orsacchiotto di peluche che tanto gli avrebbe oscurato la visuale, da rischiare di farlo metter sotto da qualche macchina. Questo era sempre stato Horace per Merope. Un amico, un compagno, un fratello. La sua più fedele ombra. E chissà, forse se ne sarebbe accorta presto, di averlo rotto. Forse se ne sarebbe accorta presto, non ci fosse più il minimo appiglio a quell' Horace, nel modo in cui il Mago le si rivolgeva e si muoveva dentro di lei, ma -almeno per il momento- non ci avrebbe pensato. Mi stai uccidendo. E dunque lo uccise, . Se Horace la stava annientando fisicamente, con ogni spinta a lacerarle la carne sempre più, tanto da indolenzirle l'intero ventre e riempirlo di lancinanti fitte, Merope lo stava distruggendo internamente. Il suo cuore l'aveva stretto tra le ditina fameliche, sino a farlo sanguinare. Crudele era stata, con lui, crudele continuava ad essere in quell'orribile verità a gravare -presenza costante- sulle piccole spalle: non se ne rendeva conto. Dunque chi era, in quel gioco di lacrime e sangue, la vittima o il carnefice? La Principessa o l'Orco? Merope, o Horace? [..] Un gemito le scosse il petto, mentre l'indice lo teneva ancora incastrato tra i denti, nell'attesa che lui adempiesse alle sue parole. Al suo invito. Vienimi dentro, gli aveva detto, nell'incoscienza da bimba, mortalmente pericolosa in un contesto simile. Come una bambina, infatti, Merope desiderava avere tutto. Un gioco, quello, un terribile gioco nel quale Horace rappresentava la sua più importante marionetta. Ed in quell'innocenza macchiata di malizia e dispetto, la Fata sbagliò. Era stato naturale, per quella sua testolina ancora non troppo esperta, pensare che il fine ultimo di un tale atto potesse sopraggiungere presto. Horace, dopotutto, sopra di lei, sembrava sul punto d'impazzire. Respirava a fatica, i denti digrignati come una bestia. I capelli gli coprivano buona parte del viso, madido di sudore. Era una visione che le piaceva, tanto, troppo. E che forse -unita a tutto il resto- la condusse a spingere ancor più. Come lui spingeva dentro di lei, lei spingeva nel volerlo vedere esplodere in definitiva. Perdere completamente il controllo. Riempirla di quel caldo desiderio che anelava tanto avidamente. Fu per questo che, quando lui si scostò, concedendo a quel suo povero corpicino un -breve- istante di sollievo, Merope mugolò. Le braccine le alzò, facendo per sfiorarlo sul viso. Voleva toccare con mano quel fuoco che ancora continuava a vedergli addosso, ed in quell'impercettibile frangente di quiete, fu un lampo di tenerezza, a vibrarle dentro. Quasi si fosse resa conto soltanto in quel momento, con lui non più dentro di lei a sporcarla di peccato, fosse ancora il suo Principe, quell'uomo reso Bestia che tanto brutalmente l'aveva posseduta sinora, e che tanto brutalmente -dal canto suo- aveva spinto sull'orlo del baratro. Ma non ci fu tempo. Ahimè, la Fata fu troppo lenta, rispetto alle mosse del Cacciatore. Credi abbia già finito, con te? Rimanendo bloccata a mezz'aria per quella frazione di secondo in vero fatale, i grandi occhioni azzurri si spalancarono. Perchè ho appena iniziato. Un singulto a scuoterle il piccolo petto aldilà della vestaglietta ormai sbrindellata e macchiata, mentre le dita di lui, impresse a fuoco sulla sua carne morbida, la sollevavano come fosse priva di peso per ribaltarla.
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    Merope si ritrovò inaspettatamente col faccino premuto contro il materasso, il respiro che le si mozzò nei polmoni immediatamente. Tentò di rimettersi dritta, quanto meno per provare a respirare, ma il suo tentativo non andò per niente a buon fine quando Horace fu di nuovo dentro di lei, rubandole un urlo così acuto, che avrebbe fatto vibrare l'intera stanza. E continuò ad urlare, Merope, quando gli affondi sopraggiunsero ben presto, insinuandosi attraverso ogni suo muscolo contratto. La carne bollente tentò d'opporre resistenza, così come l'intero corpicino che si mosse istintivamente, nel tentativo di sfuggirgli, ma vano risultò ogni sforzo. Horace spingeva dentro di lei, così forte che fu il rumore dei loro corpi a collidere l'uno con l'altro, a coprire i suoi gemiti e le sue urla. Lo sentiva bruciarle dentro. Lo sentiva raggiungere dolorosi punti di lei che non sapeva nemmeno di avere. Sei mia, Merope. Voglio sentirtelo dire. Ed a quel punto, Merope non rispose. A quel punto, Merope non era più lì. Le capitava spesso, sempre, d'estraniarsi completamente da questo mondo, quando troppo spaventata per reagire. Le ditina a stringersi sul lenzuolo, gli occhi a riempirsi di lacrime per il dolore sempre più invasivo e nessuna forza per dirgli di fermarsi, la testolina della Fata vagò altrove. Senso di colpa. Era suo? Era di Horace? Non poteva saperlo, ma comunque lo provò. Lo provò perchè nel modo in cui la colpiva, nel modo in cui le schiacciava la faccia contro il materasso, stringendole i capelli tra le dita, per un terribile momento la Carrow associò il Rotas a.. beh, lui. Suo padre. No. Si morse il labbro inferiore, ricacciando dentro quel brutto pensiero. Horace, il suo Horace, nulla aveva a che vedere col signor Carrow, e si sentì davvero cattiva per averlo anche solo pensato. Così come cattiva si percepì nel riconoscere, assimilare, di averlo fatto arrabbiare. Sì, l'aveva provocato così tanto che adesso Horace era arrabbiato con lei ed aveva deciso di farle male. L'aveva fatto ancora ed ancora. Come faceva ogni giorno col suo papà. Come faceva con tutti. Era colpa sua, solo e soltanto colpa sua. Allora respirò a fondo, per quel poco che le riuscì possibile fare, mentre di nuovo tornava a questo mondo. Doveva farsi perdonare. Il suo Principe era ancora lì, da qualche parte, -ne era certa- e lei avrebbe aspettato tornasse, prima o poi. Come faceva con Abraxis, che le portava spesso la colazione che tanto le piaceva, dopo quei brutti momenti. Momenti, sì, eran solo momenti. Presto o tardi sarebbe finita ed avrebbero dormito come sempre, riempendosi di bacini ed abbracci. Horace le avrebbe comprato il gelato alla fragola che le piaceva tanto, il giorno dopo, ed avrebbero guardato qualche imbarazzantissimo film romantico che avrebbe fatto storcere il muso al Rotas in quel modo buffo che tanto la faceva ridere. Doveva solo concentrarsi. Sì. Si ricollegò col suo corpo, e si scoprì accaldata ed esausta. La carne pulsante s'era ormai abituata a quell'intrusione, e, ignorando il fatto continuasse a sentirselo spingere fin dentro alla pancia, scoprì che non faceva più troppo male. Allora gemette, ancora ed ancora, contorcendosi sotto di lui, col sederino pieno a collidere contro ogni spinta, vibrando. Il rumore dei loro corpi le piaceva. Così come le piacevan le mani dell'altro strette tra i capelli e sulle natiche. Paradossale, visto quanto pensato sino ad ora, ma costretta a carponi sul materasso, col Cacciatore a spingersi in lei brutalmente, ogni affondo simile ad una coltellata, Merope si rese conto di quanto potesse piacerle. Ed il fatto che in vero così fosse, la sollevò tanto che riprese a partecipare. Andava tutto bene. Sì, andava tutto bene tra lei ed il suo Principe. Va tutto bene, Horace. Adesso va tutto bene. Parole quanto mai lontane che le vibraron sotto pelle, mentre la boccuccia la schiudeva per accontentarlo, compiacerlo. Tua. Ansimò. Tua, Horace. Ed avrebbe continuato a ripeterlo, ad ogni spinta, con la voce spezzata da gemiti sempre più violenti ed imploranti - tua, tua, tua - mentre il calore tornava a crescere dentro di lei, avvolgendosi attorno alla di lui eccitazione, ormai marmorea - tra le pareti convulse della sua intimità. Tremante, allora, un braccino l'avrebbe allungato verso dietro. Tentò di raggiungerlo, alla cieca, e laddove giunse s'arpionò, con le unghie che si conficcarono nella carne bollente dell'altro. In quel febbricitante contatto, mentre tutto il suo fisico vibrava scosso da ondate adesso di piacere misto al dolore, Merope non se ne accorse. No, non se ne rese proprio conto degli ultimi sprazzi di quella paura che ancora covava nell'angolino più razionale -e nascosto- del suo intero essere. Paura che, le dita strette a lui, le unghie appuntite a graffiarlo a sangue, gli riversò inconsapevolmente dentro.
     
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    A pensare ed analizzare i dettagli di quella notte, in futuro, fin quasi a rendere il compito di snocciolarne ogni dettaglio di quella scena del crimine patologico nella propria ossessione di risalire a quale fosse stato l'errore più grave, quale il dolore più grande e la perdita più dolorosa, Horace sarebbe di certo giunto alla conclusione che la loro personale tragedia si era consumata in due atti ben distinti.

    Atto I



    C'era la passione e l'animale pronto a dilaniare la carne per poter considerare propria ogni parte della preda.
    Che di Horace non esisteva più alcuna traccia, mentre gli artigli si posavano sul corpicino martoriato di Merope in cerca di un nuovo spasmo delle membra doloranti. Continuava a spingersi in lei senza mostrare alcuna esitazione, nonostante la visione di quel corpicino avrebbe invero smosso gli animi più duri alla pietà. Era così piccola, sotto di lui, così spezzata. Ma non poteva osservarne lo sguardo improvvisamente lontano il cacciatore mentre le mani le stringeva ai suoi fianchi per impedirle di fuggir via e continuava a scavare in lei. Mentre il sangue virgineo ancora si mescolava alla collosa umidità del piacere di entrambi rendendo ogni movimento in grado di spingersi fino a punti così profondi e bollenti da dover trovarsi per forza a soli pochi centimetri dall'anima di quella principessa di un regno ormai sul punto di bruciare fino alle fondamenta. Ed era lui, ad alimentare quelle fiamme. Era lui il fuoco pronto a bruciare gli innocenti e la siccità in grado di veder persino i Re morire di stenti. Era suo il potere di distruggere ogni cosa bella fosse mai esistita tra le dolci colline ed avvallamenti che erano il corpo di Merope, lasciando nient'altro che macerie e devastazione al proprio passaggio. Vento di morte erano i suoi ansimi, tuoni che preannunciavano l'arrivo degli invasori i suoi ringhi. Nella carne che si stringeva attorno a lui nel disperato tentativo di contenerlo senza tuttavia poter nulla contro la sua furia era celata la più infame vittoria ed in quei colpi sordi dal rumore ritmico che riempivano le pareti sempre più sottili ed inconsistenti di quella camera ad ogni nuovo battere del bacino di quella bestia contro le natiche di Merope, suonavano le urla di quei sentimenti che gli morivano in petto uno dopo l'altro. L'amore, la devozione e la sottomissione non avevano più dimora e tremanti scapparono via, lasciandolo in balia della fame e del bisogno di possedere ogni angolo di quel corpo latteo. Che se ne fosse stato in grado, con quelle zanne, le avrebbe inciso a sangue nella pelle il proprio nome infinite volte, così che nessuno avrebbe mai più osato volgere lo sguardo su di lei senza tremare al pensiero di lui. « Tua, Horace » La bestia allora esultò, sazia, soddisfatta di aver finalmente vinto. Ed ad ogni suo sussurrare quella tremenda verità spingeva la virilità marmorea in lei con ancor più foga, quasi ogni ammissione di totale sconfitta da parte della piccola Carrow riuscisse a riempire il corpo di quell'orco di nuove forze. Mentre le dita le stringeva con forza a quelle ciocche che un tempo erano state oro, ma che le sue stesse mani avevano sporcato di sangue. Mentre le zanne le affondava sulla sua spalla tremante chinandosi su di lei per far aderire del tutto il petto alla sua schiena, schiacciandola contro quel materasso sporco di ognuno dei loro peggiori peccati. Fu allora, tuttavia, che la manina della Fata arrivò a graffiargli la coscia. Un inatteso, disperato ultimo tentativo di difendersi, forse... o, molto più probabilmente, solo la crudele beffa che avrebbe reso così palese chi fosse la preda.

    Atto II



    C'era la paura ed improvvisamente nuovamente un semplice uomo indegno di poter essere definito tale.
    Come serpenti scivolarono sotto la pelle del moro i sentimenti che non gli appartenevano, riempiendo il corpo di un terrore così intenso da bloccare improvvisamente qualsiasi movimento del corpo madido di sudore e da svuotare i polmoni di ogni traccia d'aria. Che sì, Horace conosceva la paura in ogni sua sfumatura, ma mai gli era appartenuta in sfumature così intense. Perché gli adulti non provavano sentimenti tanto profondi, lasciando che rimanessero ben chiusi nell'incoscienza dell'infanzia per poter modellare il carattere a poter fronteggiare la vita adulta senza rischiare di essere da essa sopraffatti per via di quelle reazioni tanto viscerali. Ma la sua Merope non aveva mai chiuso totalmente quella porta ed ora lo puniva per ogni suo errore costringendolo ad entrare con lei nella tana del Bianconiglio. Mentre un gemito strozzato gli sfuggiva dalle labbra ed il corpo rispondeva al più semplice istinto cercando di fuggire via, quella bimba dagli occhioni troppo grandi e dal viso tondo come la luna lo costrinse a rimanere invece con lei, così da poter guardare cosa aveva fatto. Tornò presente a se stesso Horace, nuovamente padrone di un corpo che la bestia aveva usato fino a quel momento al suo posto. Tornò a sentire il cuore battergli furiosamente in petto, mentre gli occhi osservavano con orrore il sangue e come fosse schiacciato senza alcuna dolcezza o premura contro il materasso, il corpicino tremante e dolorante della sua principessa. Aveva giurato di proteggerla a costo della propria vita. Di amarla silenziosamente, accettando il dolore derivante da un sentimento incatenato per così tanti anni da staccargli di dosso continuamente brandelli di un cuore allo stremo. Come aveva potuto farle qualcosa di simile? « No, no, no...» Doveva essere di certo un incubo. L'allucinazione che la mente gli proponeva al solo scopo di tormentarlo. Osservò terrorizzato le proprie mani, sollevandole davanti al volto pallido per poter guardare come fossero ricoperte di sangue. Era ancora dentro di lei, eppure non muoveva più il corpo di un solo centimetro, quasi rimanere immobile potesse cambiare la realtà che tremava davanti ai suoi occhi spalancati dalla paura. Nella speranza che a rimanere così abbastanza a lungo, sarebbe tutto semplicemente scomparso nel nulla. « S-Sono stato io. Sono stato io a farti questo, Merope. » Le aveva rivolto quelle stesse parole in quella che sembrava un'altra vita e che pure doveva essere stato appena qualche minuto prima di quel momento. Merope allora aveva agitato il visino paffuto per tranquillizzarlo. Ma non avrebbe potuto negare ancora una volta. Con un movimento improvviso uscì da lei, gettandosi con l'intero peso del corpo verso l'indietro per scostarsi il più in fretta possibile. Per non rischiare di toccarla per un solo secondo in più. Si ritrovò con la schiena per metà sospesa nel vuoto ed il resto del corpo abbandonato contro quel materasso lurido per appena qualche attimo prima di cadere rovinosamente oltre il bordo del letto, atterrando con un tonfo sul pavimento. Nudo come un verme allora strisciò, cercando di scappar via. Con le braccia e le gambe tentò di muoversi rimanendo steso a terra, dirigendosi verso la porta del bagno adiacente alla camera da letto. « A-aiuto. » Implorò tra le labbra tremanti, mentre gli sembrava di essere sul punto di perdere la vista, che mai quegli occhi così attenti avevano visto il mondo così sfocato e confuso. Perché mai prima di allora Horace aveva permesso alle lacrime di riempire il suo sguardo, no.

     
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