Let the Storm descend upon you

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    «Abbiamo un accordo?» Oltre quello, anche parecchi Yen in meno sul conto bancario, manovre di cui nessuno avrebbe potuto tener conto da quando le finanze della Yamakazi erano divenute di suo uso esclusivo: un lusso da grandi che serviva molto di più a Satoru per accertarsi che la sorellina non sperperasse il patrimonio famigliare, ma anche un vantaggio personale che permetteva a lei manovre indipendenti alle quali nessun altro aveva accetto. «Abbiamo un accordo, Signorina Yamakazi.» L'uomo che le stringeva la mano era più basso e vecchio di lei, schermava gli occhietti da topo con delle lenti da sole esageratamente scure e sudava al di là del colletto di una camicia che sopperiva ai primi aloni smerlettati. Satō Kozue era stato un cliente di suo padre diversi anni prima, Nana non ne aveva mai dimenticato la voce stridula e la patologica sudorazione, babbano di origine ma ben disposto nei riguardi dei maghi, l'omuncolo si prestava adesso a servire l'erede rinnegata del vecchio collaboratore poiché privo di motivi per non farlo: la paga era buona, le indicazioni estremamente semplici, e la committente sufficientemente appetibile da solleticargli le fantasie più deviate. Non un'ulteriore parola l'avrebbe scortata fuori dall'abitacolo, determinata a smaterializzarsi dietro l'angolo ancor prima che Kozue rimettesse in moto.

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    L'enorme villa nella periferia di Londra entrò nel campo visivo dell'autista ma non in quello di Narumi, incastrata nel vano posteriore del fugrgone che divorava asfalto e ghiaia a gran velocità. Imbavagliata e ammanettata, sopperiva piuttosto alle violente oscillazioni del veicolo cercando di non perdere l'equilibrio, qualche mugugno vibrato tra le labbra a permetterle di sopportare poche fitte di troppo. Nessuna annunciazione, pochi preamboli ed estrema essenzialità, quando il camioncino svoltò verso l'ingresso della tenuta improvvisò una stridente frenata che fece strillare le gomme, innescando all'istante un olezzo di bruciato e una densa nube di polvere: tutto procedeva secondo i piani, ché ad una commissione tanto delicata non potevano esser concesse clausole d'eccezione, tutto defluiva dunque sulle note scandite dallo spartito della giapponese, che pure contro ogni aspettativa riempiva le evidenti vesti di vittima, se non più chiaramente proprio quelle di ostaggio. A Nana vennero infatti feriti gli occhi all'apertura dei due portelloni posteriori, un sole bruciante a ricordarle l'esistenza del tramonto e una luce troppo forte per permetterle di abituarsi immediatamente all'aria che le arrivò addosso. Riuscì quanto meno a respirare, mentre quattro braccia di corpi incappucciati la strattonavano fuori per farla atterrare direttamente sul chiostro ghiaiato, un tonfo a confermare l'impatto del corpo raggomitolato e qualche schizzo vermiglio a sporcare il bianco inamidato del selciato. Era una maschera di sangue, un agglomerato di carne e grumi capace di raccontare senza neppure una parola le percosse evidentemente subite. Non sentì gli sportelli richiudersi né l'autoveicolo ripartire in sgommata, ma sopperì a qualche violento colpo di tosse quando una nuova coltre di polvere le si infilò nelle narici fino a graffiarle i polmoni: unico tratto che confermava a chiunque la osservasse il fatto che la giovane potesse ancora definirsi vagamente viva. Concluso l'ultimo atto, iniziava dunque l'improvvisazione: se e quando dalla villa si fossero finalmente accorti di quanto appena accaduto in giardino, Nana avrebbe offerto ai primi giunti la vista di un corpicino raggomitolato e scosso, vestiti a brandelli e capelli in disordine, occhi e labbra tumefatti, dissanguamento in atto; eppure ne era certa, chiunque l'avrebbe riconosciuta come la sorella del padrone di casa. Molto più interessante sarebbe stato osservare cosa avrebbero fatto della pergamena arrotolata nelle funi delle sue manette, un foglio inchiostrato di sangue che riportava a chiare lettere la seguente minaccia: Il tramonto della Yakuza è vicino.
     
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    Satoru Akira Yamazaki

    Il vapore riempiva l'ampia sala della vasca in pigre spirali, risalendo fino al soffitto per rimanere intrappolato tra quelle mura silenti, dove l'unico rumore che potesse arrivare alle orecchie era quello del lento sciabolare dell'acqua profumata su cui galleggiavano pigramente i petali di qualche fiore sacrificato alla necessità di adornare di bellezza ogni stanza nella quale Satoru facesse il proprio ingresso. Il corpo asciutto del bambino prodigio, completamente immerso in quell'acqua bollente, sembrava brillare per via delle luci create in corrispondenza di ogni goccia d'acqua rimasta sulla pelle d'alabastro dalle piccole fiammelle delle candele disseminate per tutto il perimetro della stanza. Erano mani delicate quelle che carezzavano i capelli d'ebano e ripulivano con una spugna ogni centimetro di quel corpo arreso alla stanchezza derivante dall'ennesima notte insonne, appartenenti ad una giovane dallo sguardo adorante, quasi la sua vita avesse raggiunto il suo punto più alto dal momento in cui le era stato concesso l'onore di occuparsi personalmente delle necessità del proprio padrone, potendo posare le dita su quel corpo che per chissà già quante volte aveva bramato di poter sfiorare anche solo una volta al di sotto dei sontuosi kimono che era solito indossare. Con gesti attenti e delicati versava acqua su quei muscoli asciutti e con piccoli sospiri sognanti a socchiuderle le labbra si concedeva ancora una carezza tra le ciocche umide dei capelli scuri, i pensieri a guidarla verso scenari peccaminosi che l'avrebbero voluta a sua volta immersa in quella stessa vasca, aggrappata a quella schiena ampia tra i gemiti bollenti, annientata da ogni scossa di piacere provocata al corpo esile da quelle spinte prive di qualsiasi gentilezza. Le mani le tremarono appena ed il respiro le rimase improvvisamente bloccato in gola, quasi temesse che quella piccola imperfezione nei movimenti potesse costarle la collera dell'uomo... e forse così sarebbe stato, in circostanze diverse e se gli occhi affusolati dello Yamazaki non fossero stati catturati dall'improvvisa comparsa di una sagoma aldilà della sottile parete di carta. Tutti sapevano quanto poco saggio fosse interrompere Satoru durante le ore giornalmente riservate ai lunghi bagni con cui tentava di ripulire il corpo e di rilassare la mente e la comparsa di quella sagoma poteva significare solo una cosa: questioni ben importanti di cui occuparsi. In caso contrario, il povero sfortunato che avesse osato interrompere quel momento sacro avrebbe pagato la leggerezza nel giudizio con la sua stessa vita. Inclinò appena il capo, fino a poggiare l'orecchio contro la spalla umida mentre la lingua percorreva lentamente il labbro inferiore per catturare ogni goccia d'acqua rimasta su di esso. « Parla. » La sagoma si inginocchiò prontamente al suono della sua voce, mostrando la riverenza che gli era dovuta prima di prendere parola senza tuttavia osare oltrepassare quella parete divisoria. « Una macchina sconosciuta, sprovvista di targa, ha lasciato all'entrata della villa una donna con evidenti ferite, prima di scappare via. Dalle telecamere la sconosciuta sembrerebbe essere sua sorella, la signorina Narumi. » Di tante prospettive possibili, quelle poche parole bastarono a descrivere di certo lo scenario più inaspettato possibile. Erano trascorsi anni dall'ultima volta che Satoru aveva incontrato lo sguardo di Narumi, ben prima che la sorella si rivelasse un tassello indispensabile nei piani di Goro per smantellare il loro clan e venderli alle autorità. Dubitava la donna potesse aver perso il senno al punto da tornare di propria iniziativa alla sua porta, ben cosciente di cosa ritrovarsi al suo cospetto avrebbe significato per lei. Che qualcuno avesse deciso di portarla a lui in dono sembrava altrettanto improbabile. Il corpo si alzò lentamente, abbandonando il caldo abbraccio dell'acqua mentre già le braccia si alzavano ai lati del corpo in un gesto che permettesse alle mani della giovane serva di ricoprirne la nudità con un ampio accappatoio. « Portatela dentro la villa e fornitele le cure necessarie in mia attesa. Non perdetela di vista per un solo secondo, voglio due guardie costantemente al suo fianco.» […] Sarebbero trascorse ore prima che Satoru oltrepassasse le porte della stanza nella quale Narumi era stata condotta, abbastanza tempo per dar modo ai medici sempre al suo servizio di occuparsi delle ferite più preoccupanti della giovane e sistemarla in un letto candido, dal quale le sarebbe stato impossibile muoversi senza allertare le due silenti guardie sistemate ai suoi fianchi. Lo sguardo affusolato sembrò attraversare la figura della donna senza vederla davvero mentre un uomo si avvicinava al suo orecchio, bisbigliando qualche parola udibile solo a lui prima di porgergli il biglietto rinvenuto addosso alla giovane. Satoru depositò la pergamena tra le pieghe del sontuoso kimono cremisi, prima di estrarre dallo stesso nascondiglio la propria bacchetta. Ci si sarebbe forse aspettati un qualche segno di sentimento in quegli occhi di tenebra nello scontrarsi per la prima volta dopo anni con quel viso tanto simile al proprio, ma non fu la gioia ne' la rabbia ad adombrare lo sguardo dello Yakuza. Non c'era nulla a cui potersi aggrappare, nessun sentimento sul quale poter fare leva... solo un vuoto così grande da sembrare pronto ad inghiottire ogni cosa per sempre. Avanzò di qualche passo, tenendo la bacchetta puntata verso Narumi davanti agli sguardi solenni di tutti i presenti, prima di spingersi dentro la sua mente con quella sicurezza di chi possiede l'intero mondo nelle proprie mani ed a cui nulla è precluso. Se Satoru esigeva di scrutare tra i suoi pensieri ed i suoi ricordi, allora così sarebbe stato. Perché lui era il Dio e Narumi... Narumi era nulla.
     
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    Doveva essersi sentito così, quel Cristo sacrificale inchiodato alla croce perché il gregge non era riuscito a salvarsi da solo, doveva rassomigliare parecchio all'involucro di pelle e sangue che conservava un'anima usurata e consunta, obbediente nel rispondere al nome Yamakazi anche quando all'identità equivaleva un indicibile tradimento. Naufragava senza tuttavia delirare, la mente di Nana, galleggiava su maree nauseabonde di fitte e vertigini, ma non perdeva la presa salda sulla lucidità di cui avrebbe avuto disperato bisogno da lì in avanti; stringeva forte i pugni, si feriva i palmi con le unghie tanto nessuno avrebbe notato la differenza col vermiglio di cui era già cosparsa, e imponeva al proprio corpo il distacco dissociativo dalla coscienza che le avrebbe impedito di smarrirsi, di spegnersi, e dunque di abbassare la guardia. Non fu necessario riconoscere le braccia che la raccolsero da terra come fosse solo una malmessa bambola di pezza, né ci fu bisogno di sincerarsi che le mani intente ad accarezzarla col Dittamo fossero davvero qualificate per farlo; al contrario, piuttosto, pregò tacitamente che ognuno di quei collaboratori fosse un fedele alleato del clan, leale al punto da non essersi mai affacciato troppo spesso oltre il parapetto della società esterna. Nana era appena arrivata in Inghilterra, d'altronde, nessuno tra loro poteva ricordarla come altro rispetto alla secondogenita introvera del temibile Isoshi, ma era chiaro che se qualcuno di loro avesse avuto la possibilità di vederla scendere dall'aereo sulle proprie gambe avrebbe avuto parecchio da spiegare. Non si muoveva, invece, inerme in uno stato di apparente incoscienza che era vizio e capriccio al contempo, si lasciava medicare e spogliare perché satura del dolore, ma subiva anche le scomposte carezze di chi la rivestiva di un kimono inamidato approfittando di una nudità che non avrebbero avuto onore di osservare una seconda volta. Quando tutto tacque, infine, Nana sospirò, ascoltando il battito finalmente mitigato del suo stesso cuore per il tempo che intercorse tra l'ultimo tocco estraneo e i primi passi ben più familiari: circa milleseicento colpi cardiaci, contati minuziosamente senza margine d'errore. Occhi chiusi e corpo immobile, la minore avvertì l'aura del fratello farsi più vicina senza neppure trovarlo con lo sguardo - non ne aveva mai avuto bisogno - checché ne dicessero entrambi, quei due erano legati da un filo di empatia che nessuno di loro sarebbe mai stato disposto a riconoscere, un braccialetto rosso che nel bene e nel male li costringeva a percepisci, più come una condanna che non un dono, quel fardello imposto a chiunque condivida la genetica almeno per metà. Satoru arrivò e con lui il silenzio, quella patina di nulla che era presagio e vaticinio, spalancava come un'apocalisse le porte di quel che Narumi sapeva sarebbe successo; e quando successe, prevedibilmente, lei fu pronta. «Mh...» Un dolorante cipiglio tra le sopracciglia alterò la perfezione porcellanesca dell'epidermide, una smorfia di insofferenza appena accennata che corrispondeva alla rappresaglia invisibile delle sinapsi neurologiche, addestrate per anni a rispondere alle invasioni con la più infida dissimulazione, cosicché sarebbe stato ben più facile confondere la schermatura occlumantica con la desolata assenza di informazioni da catturare. Non aveva imparato semplicemente a respingere, Nana, ma si era impegnata piuttosto ad imparare a mentire anche senza schiudere le labbra, cosicché la mente del fratello avrebbe potuto più facilmente credere all'operazione di un Oblivion risolutivo, anziché scoprire prematuramente che come lui anche la seconda della discendenza era un'esperta Occlumante. «Che diavolo stai facendo, Sato-chan?!» Gli occhi che gli si spalancarono addosso erano arrossati, languidi, pieni del nero delle iridi che ingoiava pupille e menzogne ad un tempo solo. Le uniche immagini che il giovane sarebbe riuscito a cogliere riguardavano ciò che gli spettava sapere: colpi, torture, grida e sevizie, voci impegnate nel più rigido dialetto della Tokyo borghese ed infine la scritta inchiostrata che gli era stata fatta recapitare. La scelta del vezzeggiativo, d'altra parte, inusuale per lei che cavalcava le lingue internazionali come una domatrice di idre, avrebbe potuto porre l'accento sullo stato alterato della sua mente, evidenziando con le debolezze del corpo anche delle altre per la psiche. «Dove sono?» Un soffio, un colpo d'addome con cui tentare un sollevamento. «Perché mi hai portata qui?» E tanta, così tanta innocenza a riempirle i dotti lacrimali.
    Non ricordava niente, Nana, chi mai avrebbe osato dubitarne?
     
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    Satoru Akira Yamazaki

    Esisteva un breve momento, un attimo appena prima che le menti finissero con l'aprirsi e piegarsi ai suoi ordini, durante i quali ogni persona finiva inevitabilmente con il cercare di opporsi a quella sottile intrusione tra le proprie sinapsi. Persino chi decideva volontariamente di dare libero accesso alla propria memoria non poteva fare a meno di sobbalzare ai primi tocchi di quella presenza estranea, ritraendosi istintivamente da quel contatto troppo intimo. Era oltremodo vergognoso riscontrare nella mente di sua sorella una resistenza appena accennata, priva di quella forza che se non gli insegnamenti, almeno il sangue che le scorreva nelle vene avrebbe dovuto portare con sé. Satoru oltrepassò senza alcuna difficoltà quella blanda agitazione, scivolando tra i ricordi di Narumi senza alcuna esitazione a muoverlo. Spettatore silente osservò dal suo punto di vista le immagini di violenza, riuscendo a catturare nient'altro che qualche dettaglio degno di attenzione tra quelle sfocate diapositive di violenza e le figure sfocate ai margini del campo visivo. Un'insegna luminosa, la targa di una macchina di passaggio. I fiori piantati nella siepe all'angolo della strada. Nessuna delle percosse subite dal corpo inerme riuscì a smuovere un singolo accenno di indignazione o rabbia, quasi il dolore fosse nient'altro che un contorno a quelle informazioni che avrebbero potuto rivelarsi utili a scoprire chi fosse stato l'uomo la cui mano aveva firmato il biglietto ritrovato sul corpo di sua sorella. Scandagliò quei ricordi fino all'ultimo, in una connessione a stento tollerata con un essere così inferiore alla sua figura, che fin dai primi accenni di coscienza da parte del bambino prodigio il mondo si era tanto impegnato per tenergli lontano, così che la mediocrità non fosse in grado di insozzare in alcun modo la sua brillantezza. Non avevano mai avuto modo di essere davvero fratelli Satoru e Narumi, di condividere le gioie o le pene di un'infanzia tanto complicata come lo era stata la loro, crescendo in due mondi diametralmente opposti per quanto simili. A quale tipo di legame avrebbe dovuto far fede, per riuscire a sentirsi in qualche modo colpito da quel che era successo al sangue del suo sangue? Non provava nulla. Persino il tradimento a cui la giovane aveva preso parte sembrava nient'altro che l'inevitabile mossa di un essere misero, la sola scappatoia rimasta a disposizione ad una codarda incapace di brillare di propria luce, costretta a ricercare l'approvazione di una serpe come Goro per potersi illudere di contare, alla fine dei conti, qualcosa. Non esisteva dubbio nella mente di Satoru, sulla necessità che anche lei pagasse per il tradimento... e tuttavia, ai suoi occhi non rimaneva nient'altro che una pedina manovrata da altri, priva di qualsiasi importanza che potesse scatenare la rabbia che era invece rivolta alla figura di Eisen. Come avrebbe potuto anche solo prendere in considerazione che quella donna fosse capace di rappresentare un pericolo, quando per l'intera vita gli era stato ripetuto di come sua sorella fosse nient'altro che spazzatura? Sarebbe in quel caso riuscito a scorgere gli indizi della menzogna? «Che diavolo stai facendo, Sato-chan?!» Aveva visto abbastanza. La mano che ancora stringeva tra le dita affusolate la bacchetta si abbassò, decretando la fine di quella connessione mentale tra i due. Nulla nella stanza si mosse di un solo centimetro, in attesa degli ordini di quel Dio privo di pietà che ancora teneva lo sguardo affilato puntato sul volto tumefatto della giovane. Sato-chan... qualcuno mai, prima di allora, aveva osato chiamarlo così? La mano sinistra si mosse in un accenno che portò la figura di una delle guardie ad avvicinarsi a lui, pronta a memorizzare ogni parola pronunciata sottovoce da quelle labbra severe. Lasciò al sottoposto ogni dettaglio rinvenuto tra i ricordi di Narumi per dar modo alle ricerche di avere inizio il prima possibile. Avrebbe atteso che tornassero a lui con un nome, o meglio ancora, con una testa servita su un vassoio d'argento. Solo a quel punto alzò la voce abbastanza per permettere a tutti i presenti di poter cogliere i suoi successivi ordini. « Lasciateci soli. » Immobile, rimase al centro della stanza fin quando tutti i presenti non furono usciti. Solo a quel punto e per la prima volta. probabilmente nel corso della loro intera vita, volse lo sguardo verso sua sorella e si rivolse direttamente a lei. La osservò, davvero, lasciando che la pressione di quello sguardo privo di pietà ne ripercorresse i lineamenti usurpati dalla violenza subita. « Sei sempre stata debole, Narumi, eppure persino una nullità come te dovrebbe essere in grado di far qualcosa di più del subire passivamente un'aggressione ed un rapimento. La vergogna è tale da averti privata dei ricordi di cosa è accaduto? O forse è la tua stupidità a renderti così priva di utilità persino ora?» Si avvicinò il tanto necessario a poter allungare su di lei una mano, posando le dita affusolate in corrispondenza del collo diafano, senza tuttavia stringerne la presa. Non ancora. « Hai raggiunto il punto più basso della tua vita tradendo nostro padre ed il clan ed ora arrivi al mio cospetto e chiami il mio nome come se fossi la tua salvezza... ma dimmi, sorella, hai parole utili a convincermi ad aver pietà di te? »
     
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    Una distesa sabbiosa riempiva il fossato posto a difesa della psiche, una fortificazione costruita in lunghi anni che vantava ad oggi di una rocca inespugnabile; certo nessuno era invincibile, ancor meno tale poteva definirsi l'autodidatta Narumi Yamazaki, altrettanto solida era tuttavia la potenza della disperazione, quell'assenza di scrupoli capace di produrre sufficiente adrenalina affinché il corpo più gracile riesca a sollevare la carcassa di un'automobile. Vibrò di un singulto inudibile la sua coscienza, quando il maggiore scivolò in lei con l'irruenza di un colonizzatore, gli permise di depredare quel che nasceva già distrutto, e quando lo sentì esplorare gli offrì il più sgangherato buffet di diapositive che aveva in precedenza approntato per l'occasione. Socchiuse intanto gli occhi, sopportò l'ingombro tra le tempie e inciampò in appena un paio di aneliti insofferenti, finendo per spalancare nuovamente gli occhi quando le più verosimili insinuazioni salirono a cristallizzarsi in sillabe sulle labbra del maschio. «No...» Sentì la sua mano sul collo e rabbrividì, assurdamente grata per non aver semplicemente sentito uno schiaffo sul volto già abbondantemente martoriato: non se ne sarebbe sorpresa, era stata addestrata anche a quello. Tentò piuttosto di deglutire sangue e saliva in un unico bolo, affaticata dall'incombenza di dita che avrebbero potuto serrarle la trachea da un momento all'altro, e impose intanto alla propria mente la lucidità necessaria a mantenere la concentrazione. «Il fatto che volessi bene a Goro non significa che io abbia tradito nostro padre.» Significava in realtà proprio quello, considerato il sollievo provato all'arresto del genitore e quel languore di trinfo nel bassoventre solleticato dall'idea di poter sposare la gloria insieme allo zio, ma Satoru non poteva ancora saperlo, gli era al massimo concesso appunto di immaginarlo. «Era semplicemente l'unico a trattarmi come un essere umano!» Trasalì allo scoppio della sua stessa voce, accorata nell'aggrapparsi a una verità che restava autentica nonostante la complessiva messinscena: non era forse quella la menzogna più credibile? Una versione artefatta dell'incontestabile verità. Isoshi non era mai stato un padre esemplare, avrebbe avuto di che rimproverarsi riguardo alle educazioni di entrambi i discendenti, eppure era fatto indubbio che Narumi dall'uomo non avesse mai ricevuto altro che soprusi, sottomissione e umiliazioni, il terreno più fertile per una bambina orfana di madre che accoglieva il seme del parente più prossimo, unicamente attratta da qualche gesto gentile e parole delicate. Goro era stato per lei molto più che un custode, ma ancora una volta si sfumavano verità a suo fratello precluse, l'uomo era stato un mentore e un'ispirazione, una destinazione e un addestratore, e se Nana era stata troppo giovane per vantare di una parte realmente attiva nella dipartita di Isoshi, lo stesso non sarebbe stato nel futuro più prossimo per la sconfitta di Satoru. Di quest'ultimo cercò adesso ad un tempo solo lo sguardo e il polso, accarezzò una pelle che avrebbe forse accettato di liberarla se sporcata di sangue, e risalì lungo il braccio che la imprigionava con il languore di un serpente a sonagli; cercava tenerezza, forse, provava a farsi sentire. «Posso servirti.» Difficile dire se intendesse offrire servizi o utilità, certo era che altri l'avevano forgiata affinché fosse la dama perfetta di una corte moderna, più elegante di una serva ma sempre indegna degli uomini; avrebbe potuto negarlo al solo scopo di calpestarla ancora, Satoru, ma Nana sapeva che per seguire le orme di Isoshi l'altro doveva covare nel profondo l'intimo bisogno di una figura femminile tra le pareti domestiche, fosse anche solo per affermare e riconfermare l'autocelebrazione al solo incrociarla nei corridoi. «Lascia che mi occupi della casa, che accolga gli ospiti per te. Sono disposta a fare qualsiasi cosa Non mentiva, non esagerava, le macchine da guerra non contemplano limiti etici né confini morali, si limitano a covare artiglieria subendo fango e fatiche fino al momento più opportuno per sganciare le bombe. Cercando invano una comodità maggiore sul letto di spine sul quale sedeva, la minore dei rampolli Yamazaki riuscì ad ordinare a due lacrime silenziose di colare lascive lungo le guance livide, sospinte solo dalla più ipocrita necessità di imporsi credibilità. «Ho paura, Satoru, sei tutto ciò che mi resta.» Non poteva esistere altra verità, d'altronde, per la coda di una famiglia naufragata, accessorio di un clan spezzato da guerre civili. Se Satoru aveva bisogno di essere glorificato, Narumi avrebbe fatto tutto quanto in suo potere per crocifiggerlo con la sua preziosa corona di spine in testa.
     
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    Satoru Akira Yamazaki

    Satoru era cresciuto in un mondo pronto a ricordargli costantemente di quanto glorioso fosse il futuro pronto ad attenderlo. Eppure nulla di quel che era, poteva dirsi frutto della fortuna. Il bambino prodigio, tale per diritto di nascita, era stato costretto negli anni a dimostrarsi costantemente all'altezza di ogni singola aspettativa riposta in lui. Non aveva mai smesso di impegnarsi, di provare, di migliorarsi per divenire alla fine così simile a quel Dio di cui tutti erano pronti a vestirgli addosso gli abiti troppo pesanti per la tenera età anagrafica di quel corpo ancora in via di sviluppo. Aveva sanguinato. Era caduto. Persino il sonno gli aveva voltato le spalle da anni, circondando gli occhi affilati di scure ombre in quella costante alternanza di notti prive di riposo e colme, al contrario, di fin troppi pensieri. Ed erano così poche le parole che era solito pronunciare da dare l'impressione che fosse proprio quello il problema: nella sua mente finivano ad ogni calar della sera tutte le informazioni e le considerazioni che durante il corso della giornata non aveva lasciato trapelare in alcun modo, trasformandosi in demoni pronti a fissarlo intensamente dagli angoli più bui delle sue stanze. Sussurravano orrori indicibili quelle figure dai lunghi corni e dagli occhi di fuoco. Ma Satoru non aveva mai chiesto pietà, né cercato la comprensione altrui. Al contrario, ogni ostacolo diveniva una prova per temprare lo spirito ed il corpo. Per innalzarsi ancora di qualche centimetro verso il cielo. Se avesse rivolto lo sguardo verso il basso, se avesse lasciato modo ai piedi di incespicare una sola volta, allora tutto sarebbe crollato sopra il suo capo, esattamente come era successo ad Isoshi, suo padre. Loro padre. Quante erano le paia d'occhi rivolti a lui in attesa della sua caduta? Quanti serpenti strisciavano ai suoi piedi, fingendosi mesti mentre erano alla sola ricerca del momento perfetto per penetrare le sua carne con le zanne avvelenate? Avrebbero atteso in eterno, allora. Perché Satoru non avrebbe permesso a nessuno di assistere alla propria disfatta se non prima di averli trascinati tutti fin alle porte del Jigoku assieme a lui. Avrebbe trovato la morte prima o poi, ne era sicuro. Nessuno, tuttavia, gli sarebbe sopravvissuto per poterne gioire. «Il fatto che volessi bene a Goro non significa che io abbia tradito nostro padre. Era semplicemente l'unico a trattarmi come un essere umano!» Narumi sarebbe stata probabilmente tra le prime ad andare incontro a quella prematura morte, grazie alla sua stessa katana. Progettava di far scorrere la lama affilata lungo quel collo diafano - su cui ora stringeva appena le dita - sotto lo sguardo di Goro mentre l'uomo rimaneva a soli pochi metri da lei, impossibilitato tuttavia a raggiungerla in alcun modo. Solo un dettaglio tra le sevizie pensate per punire chi aveva venduto il clan e lo aveva provato a privare di ogni cosa. La mano risalì lentamente dal collo fasciato in strette bende fino al capo di Narumi, perdendo tempo nel sistemarle con maniacale attenzione qualche ciocca dei capelli corvini dietro le orecchie, così da poter trovare equilibrio persino in quel corpo martoriato e gonfio di lividi. Aveva bisogno che tutto fosse perfetto, Satoru, attorno a sé, per poter sopportare meglio il continuo tumulto della sua anima. Sua sorella era l'essere più lontano dalla perfezione che potesse immaginare, eppure cercare di sistemare quelle ciocche di capelli sembrò rendere almeno sopportabile quel suo parlare privo di senso. O di importanza. «Lascia che mi occupi della casa, che accolga gli ospiti per te. Sono disposta a fare qualsiasi cosa. Ho paura, Satoru, sei tutto ciò che mi resta.» « Non muovere il capo, Narumi. Sto cercando di sistemarti i capelli, non vedi? Ferma. » Le dita si chiusero allora con forza attorno alle ciocche d'ebano, tirandole con forza, fino a farne rimanere qualche lungo capello spezzato tra le falangi mentre ancora gli occhi ricercavano una soluzione che rendesse meno disordinata la figura della giovane. Ed avrebbe forse avuto l'impressione che le sue parole fossero state del tutto ignorate, la Yamazaki, a fronte di quell'ostinazione verso un dettaglio che in molti avrebbero invero trovato superfluo. Solo quando parve soddisfatto del proprio operato Satoru tornò a rivolgerle lo sguardo, la lingua a scivolare brevemente tra le labbra socchiuse per inumidirle prima di prendere parola. « Vedi, Narumi. È questo che ci ha sempre reso diversi. Mentre io scalavo le montagne, nuotavo attraverso gli oceani e solcavo i cieli in cerca della perfezione che mi rendesse degno del mio cognome, tu hai premuto le mani contro le orecchie per non ascoltare nessuno... beh, nessuno se non la serpe pronta a riempirti la testa di menzogne su come tu fossi abbastanza, su come fossi speciale. Era rassicurante aver trovato qualcuno che ti amasse nella tua misera pelle, non è così? » Un sospiro annoiato arrivò a riempirgli la bocca a fronte delle lacrime silenziose che erano intente a macchiare le guance tumefatte della mora. Stava perdendo tempo. « Come potrei accogliermi tra le mie mura, darti riparo e protezione... per poi esser sicuro di venir tradito quando incontrerai il prossimo uomo pronto a dirti che non sei tu ad essere sbagliata, ma il resto del mondo? » Posò la mano contro la sua guancia, in quella che invero sarebbe potuta sembrare una carezza, ma che tanto si distanziava nelle intenzioni da un gesto di tale tenerezza. Voleva Satoru, che Narumi sentisse contro la pelle ancora dolorante il peso di quelle stesse dita che avevano potere decisionale sulla sua stessa vita. « Rimarrai mia ospite fin quando non avrò pensato a come intendo procedere. Consideralo il capriccio di un Dio misericordioso. »

     
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