sangue e cenere

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    All'interno della spaziosa camera da letto le lampade vennero accese. Dei quadri, nei quali una giovane donna era raffigurata sorridente e piena di vita, penzolavano contro le pareti. Il pavimento sfarzoso era coperto da uno strato di tappeti gialli e dalle nuance pastello, utili ad attutire i passi leggeri della figura che si aggirava furtiva nell'ambiente. A Kimberly doveva piacere, quel colore canarino: trapunta, cuscini, poltrona... Tutto era a tono in quella palette calda ed accesa. Gli scaffali a muro erano pieni di libri e alcuni volumi giacevano ordinatamente qua e là per tutta la stanza, come se la sua proprietaria fosse sul punto di rincasare e riprendere la lettura da lì dove l'aveva interrotta. Di fianco ad una sedia sistemata vicina al camino spento, un giubbottino abbandonato. La bruna, avvolta nella sua tenuta scura da Cacciatrice, si acquattò proprio in direzione del capo d'abbigliamento. Inspirò profondamente l'aria. C'erano due odori differenti, a provenirvi: uno più dolce e femminile, lo stesso a permeare ogni oggetto o superficie dell'intera cameretta. Kimberly. L'altro... non apparteneva decisamente ad una donna. Ma neppure ad un uomo. Era lo stesso pervenuto fra coperte e lenzuola, misto all'inconfondibile puzza di sesso; un odore pungente e ferruginoso. Di sangue e cenere. Di morte. Era quello il modo in cui aveva iniziato a definirlo, il tanfo emanato da quegli esseri infimi ed immortali. Eppure non una singola goccia di sangue era stata ritrovata sul luogo del misfatto. Non dovevi essere una verginella inesperta, Kimberly, mh? Ritornò in piedi con un movimento fluido e si avvicinò all'elegante scrivania di palissandro posta in un lato della stanza, accostata alla finestra. Arricciò il naso, avvertendo l'olezzo provenire proprio da quella postazione. Negli ultimi mesi il suo olfatto si era fatto sempre più sensibile, a tratti tremendamente delicato, a tal punto da diventare una penalità per le sue doti innate. Non era ancora consapevole di tutti i cambiamenti subiti dal proprio corpo; ancor di più, era incapace di far collidere le sue due nature. Il licantropo e la Cacciatrice. Il primo, il lupo mannaro occultato dentro di sé, tendeva sempre più spesso a prendere il sopravvento - soprattutto con l'influenza della luna piena vicina, come quella notte. Mancavano pochi giorni al plenilunio e ne sentiva tutti gli influssi, sentendosi terribilmente irrequieta. Si sedette sulla sedia imbottita, trovandovi un libricino sul piano dello scrittoio. Continuando con la ricerca, cominciò a sfogliarlo, saltando pezzi di scrittura arzigogolata e leggiadra in cui la detentrice parlava delle sue turbe relazionali... finché sull'ultima pagina trovò qualcos'altro. Élodie rigirò il pezzo di carta fra le mani. Era quello, ad essere impregnato dell'odore d'inchiostro fresco ed altro. Rilesse almeno due volte quello stralcio di trascrizione di quello che, a conti fatti, era un indirizzo. Spiccava la scritta 15 Peel Street W8 7PD, London. Ed un nome: Aren. Qualche mese prima, in una circostanza tremendamente simile, avevano reperito una carta stracciata della stessa tipologia. Stessa grafia abbozzata, identico stile di scrittura. Si trattava dello stesso individuo? Un vampiro, senza ombra di dubbio a giudicare dall'odore lasciato sul foglietto. Ma perché lasciarsi indietro addirittura un indirizzo? « C'è un indirizzo. » Alzò lo sguardo ricercando l'attenzione dell'uomo intento ad osservarla, fermo sull'uscio della porta. Indossava soltanto abiti neri, tipici del loro assetto, la corporatura aitante ed equilibrata. Fece dei lunghi e decisi passi in avanti, uscendo dall'ombra ed abbassando il cupo cappuccio dal capo, scoprendo la capigliatura castana striata d'argento sulle tempie. I muscoli forti della mascella si irrigidirono e le sopracciglia adombrarono l'inteso sguardo azzurro scuro. Lo stesso colore delle iridi della giovane Cacciatrice. Benché fosse ormai verso la cinquantina, Gilbert Tenet possedeva ancora una bellezza sorprendente. Era tuttavia il costante giudizio di quegli occhi cerulei, sotto il quale si sentiva Ellie, ogniqualvolta la sottoponeva a quelle ricerche padre-figlia per testarne le capacità in crescita. Da quando suo fratello Sebastien era morto, tutte le aspettative e prospettive di un futuro dei Tenet, erano ricadute inevitabilmente su di lei. La più piccola di casa. La più ribelle ed ingestibile; quella stessa ragazza che, sotto le occhiate indagatorie del genitore, si mosse irrequieta sulla seggiola. Cos'avrebbe fatto quando avrebbe scoperto che lei, Élodie Freya Tenet, l'erede del loro clan, era stata infettata proprio da una delle pericolose creature alle quali davano la caccia? Avrebbe davvero fatto valere il loro Codice, in quanto suo reggente? Era solo questione di tempo, di questo ne era certa. Un giorno o l'altro avrebbero scoperchiato quel vaso di Pandora e le conseguenze sarebbero state terribili. Per se stessa, ma non solo. La bruna avvertì artigliarsi il cuore da una mano invisibile, al solo pensiero che gli effetti delle sue azioni sconsiderate, avrebbero potuto ripercuotersi anche su Artie e Nath. Per quanto Arthur riuscisse sempre e comunque a non farla sentire sbagliata né colpevole, erano gli sguardi carichi d'astio di Nathaniel a ricordarle i suoi errori e ciò che aveva tolto loro per sempre. Marlene. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di cancellare quella perdita, per far sì che la sé stessa del passato abbandonasse quel piano suicida di vendetta che li aveva spinti dritti fra le grinfie di un licantropo troppo in là per la loro portata. « Questa è una novità. Ma potrebbe trattarsi di un indizio inserito appositamente per portarci fuori pista. O, con ogni probabilità, in una trappola. » Élodie cercò di interpretare il tono di suo padre. Era preoccupato? O sospettoso? Lo vide aggrottare la fronte e scoccarle un’occhiata in tralice: le apparve più un ammonimento. Dal canto suo la giovane si limitò a sostenere quello sguardo, incurante del cipiglio severo a trasparirne. « Quindi non dovremmo seguire l'unica pista che ci ha lasciato? Abbiamo un nome ed una via dalle quali iniziare per tentare di stanarlo. Non dovremmo fare niente? Ha ucciso una ragazza... anzi due, per quanto ne sappiamo. Potrebbero essercene altre. » Non appena ebbe pronunciato quelle parole, con la sua solita veemenza travolgente, si rese conto di non aver sortito l’effetto desiderato nell'uomo. Anzi, le rivolse lo stesso tipo di occhiata che le riservavano i professori quando diceva qualcosa di inappropriato a lezione. Ciò le fece ribollire il sangue dentro e sentì un formicolio in tutto il corpo. Strinse i pugni, poggiando le mani sulle gambe. « Procedere con raziocinio e criterio non significa non agire. Sei ancora troppo irruenta e impulsiva, Elentiya. » Elentiya. Il suo soprannome da Cacciatrice. 'Spirito che non può essere spezzato', era stata sua nonna a foggiarlo per lei. Adira Arepo, probabilmente una delle cacciatrici più ardite di tutti i tempi. Adira era una leggenda fra i loro ranghi. Non c'era giovane recluta che non avesse sentito parlare delle sue gesta e di come la donna, ormai in meritata pensione, avesse usato le proprie abilità da sterminatrice di creature congiuntamente alle doti innate da veggente. Era stata travolgente ed inarrestabile. Lo era tuttora, con una dose maggiore di saggezza ed esperienza, da tramandare. Ad oggi, la nipote faticava ancora a comprendere il perché di quell'appellativo. Qualsiasi cosa l'anziana avesse visto nel suo futuro, doveva averla convinta prima del tempo che fosse lei, quella destinata a continuare la stirpe dei Tenet. Era l'unica, se non altro, ad avere piena fiducia nelle sue capacità. Colpo basso papà, utilizzare questo nome contro di me. « Me ne occuperò io stavolta. » Col cazzo. « Mi occupo dei coniugi, quindi. Almeno in questo sarò capace, Reggente? » Si arrese, stranamente, pur fumando dalla rabbia e parlando con un tono carico di fiele. Fissò di sbieco il capofamiglia nel tornare in piedi, uno scatto repentino accompagnato dal movimento della mancina, con la quale si appropriò del foglio di diario del vampiro e se lo infilò in tasca, appallottolandolo. I genitori di Kimberly erano rimasti al piano di sotto. Quando si erano visti piombare due oscuri figuri sull'uscio della porta, ancor prima del sopraggiungere degli Auror effettivi per le indagini, avevano concordato fosse del tutto normale vedersi sopraggiungere in casa degli investigatori. D'altronde, era sempre così facile confondere e far leva sugli animi dei parenti delle vittime, facendogli credere la qualunque. Così come, per i Tenet, fosse semplice e diretto venir allertati dalle loro fonti all'interno del Ministero quando casi come quello allarmavano le autorità o giungevano al San Mungo. Ora doveva semplicemente far dimenticare ad entrambi il loro avvento, cosicché da non lasciare prove del loro passaggio sul luogo del crimine. Dopo, l'aspettava la seconda parte di quel piano in solitaria. Non avrebbe coinvolto più nessuno, nelle sue bravate contro quelle creature abominevoli.
    [...] Non era stato poi così difficile, trovare il posto indicato da quell'indirizzo. Disobbedendo agli ordini, Ellie se ne restava da una buona oretta ad osservare il viavai di gente ammassarsi ed accodarsi in fila per entrare in un appariscente locale notturno di Notturne Alley. Il Sodom si ergeva in tutta la sua estrosità in quel vicolo buio e squallido, dal quale qualunque persona sana di mente avrebbe preferito tenersi alla larga. È qui che adeschi le vittime, Aren? È in questa mestizia che ti fingi una persona normale, per scoparti ragazzine indifese e poi prosciugarle? Sacche di sangue. Involucri pelle ed ossa. Aveva perso il conto dei nominativi oltraggiosi utilizzati dai vampiri per riferirsi agli umani - quasi che, prima di diventare dei mostri, non fossero stati essi stessi delle persone vive e vegete. Nel buio più totale della stradina opposta, accovacciata in un angolo sul margine più alto della scala antincendio di un palazzo, la bruna faceva ondeggiare le gambe nel vuoto. L'aria notturna le solleticava la pelle nuda, lì dove l'attillata gonna di pelle nera ne lasciava scoperta una generosa quantità. Non era in veste di cacciatrice, che avrebbe potuto fare il suo ingresso in quel luogo. L'aveva studiato, aveva scoperto gli approcci più funzionali per ottenere l'accesso e chi i buttafuori prediligessero come clientela - probabilmente sotto esplicita disposizione dei proprietari. Non si era meravigliata, fosse venuto fuori il nome di due Black. Il minore in particolare, le era sempre apparso un emerito cazzone, che non aveva fatto nulla per smentire quelle sue sensazioni ogniqualvolta l'aveva incontrato in qualche evento pubblico della società dabbene. Non era lì per lui, in ogni caso, quella sera. Arrestando l'oscillazione delle ginocchia, ripescò dalla borsetta a tracolla uno degli armamenti essenziali degli appostamenti di quel tipo. Negli stivaletti aveva addirittura infilato delle lame. All'interno della sacca espansa magicamente invece, stipate con selezione una accanto all'altra in scomparti foderati, c'erano alcune boccette di vetro scuro. Ne tirò fuori una e bevve il contenuto, posando una mano sullo stomaco dopo ogni sorso. Sentì in bocca il sapore amaro d'ogni composto di quella pozione, studiata appositamente dall'Alchimista per avvantaggiare i Cacciatori contro le creature. O, in quel caso, contro un essere non-morto. Non che fosse entusiasta all'idea di poter essere presa di mira o - nella peggiore delle ipotesi - morsa da un succhiasangue pazzo, ma quel filtro le avrebbe conferito un minimo di supporto. Dopo aver riposto la fiala vuota al proprio posto, sgusciò da sotto la ringhiera con un'agile movimento e percorse mollemente gli scalini verso la strada. Fu sufficiente mettersi in fila - giocherellando con lo smartphone per fingere d'essere in attesa di altre amiche - e sventolare le lunghe ciglia truccate di mascara all'indirizzo di una delle guardie, per far sì che le porte del Sodom le venissero spalancate. Non le chiesero l'età, né si accertarono se fosse troppo giovane per frequentare un night club di quel genere. Élodie non si teneva di certo alla larga, dalla tentazione di bar e pub, nonostante il suo regime di allenamento e l'alcol non andassero per nulla d'accordo; ma le bastò addentrarsi oltre il corridoio d'ingresso e scendere dei gradini che le parvero condurla dritta verso la soglia dell'Inferno, per comprendere quanto quel locale fosse completamente differente dagli altri. C'era un'atsmofera di perdizione in ogni angolo, passaggio od alcova dell'intero ambiente. L'arredo, le sculture, perfino alcuni quadri sparsi lungo le pareti, rappresentavano soggetti e scene piuttosto esplicite e fuori dagli schemi delle decenza. E poi c'erano troppe luci a led psichedeliche, troppo frastuono fra musica e gente ammassata, troppi odori. O, secondo il punto di vista della Tenet, sarebbe stato più opportuno definirla puzza. I suoi sensi sviluppati andarono in tilt. C'erano troppi stimoli visivi, uditivi ed olfattivi, affinché anche soltanto il suo naso sensibile potesse riavvertire quel particolare profumo di Morte. Sapeva se non altro da dove iniziare, spacciandosi per la damsel in distress che piaceva tanto agli uomini, attirandone l'attenzione. Soprattutto dei predatori. Si destreggiò da una marea di corpi intenti a seguire il ritmo della musica, abbassandosi con movimenti accennati - e calcolati - la gonna sulle cosce, dirigendosi verso il punto di ritrovo di maggior interesse d'ogni locale: il bancone del bar. Era una delle postazioni focali, dove avrebbe potuto carpire informazioni e se dipendenti o clienti abituali avessero notato strani "movimenti vampireschi", ovviamente dovendo apparire il più vaga possibile. Non poteva fare il nome di Aren direttamente, ma avrebbe potuto arrivarci. « Ops, mi scusi. » Diede il via alla sceneggiata, urtando col gomito un uomo seduto su uno sgabello del banco, facendogli rovesciare una generosa quantità di liquore sulla camicia. « Sta attenta, ragazzina. » Bofonchiò non preoccupandosi neppure, di nascondere l’irritazione - che andò tuttavia ad essere soppiantata da un'occhiatina allusiva, non appena notò l'esile figura della bruna. « Ma ce l'hai l'età giusta per stare qui? » Non c'era apprensione, nella voce di quell'individuo; Ellie riconobbe fin troppo bene la scintilla porcina in degli occhi annacquati dall'alcol. Mi fate schifo. Potresti avere l'età di mio padre. « Certo che sì. » Cinguettò, stringendosi nelle spalle e sistemandosi la camicetta scollata sul seno, fingendo di tentare di mettersi al riparo da quegli sguardi ammiccanti dell'ubriacone. « E sei qui da sola, passerotto? » Si schiarì la gola, la Cacciatrice, sforzandosi d'arrossire mentre si poggiava al bancone e cercava di posare lo sguardo ovunque, per fuggire da quella situazione. In un contesto differente, dove non avrebbe dovuto recitare la parte della damigella in difficoltà, le sarebbe bastato sganciargli un destro per metterlo a nanna. Addirittura per sempre. « In realtà sono venuta a trovare il mio ragazzo. » Rispose tentando di agganciarsi a degli occhi al di là del bancone, i primi che avrebbe utilizzato come ancora di salvezza dal disturbatore. E le beccò, un paio d'iridi zaffiro nelle quali si specchiò avvertendo uno strano brivido alla base della testa, fin giù lungo la spina dorsale. « Oh, eccoti, tesoro! » Non gli diede neppure il tempo di valutare, se stare al gioco e fornirle l'assist che si autogestì, allungando una mano in direzione del giovane barista nel tentativo di avvicinarlo a sé attraverso l'impedimento della superficie. Se avesse collaborato, si sarebbe inerpicata sullo sgabello e, sporgendosi in avanti col busto, gli avrebbe rubato un bacio a fior di labbra come saluto. « Non è carino? Deve sapere che è terribilmente geloso. L'altro giorno, soltanto perché un cliente... » La tattica vincente della logorrea: parlare senza sosta, per esasperare la controparte. « Sì, d'accordo. » L'uomo si congedò agitando la mano in aria, rialzandosi dalla seduta per andare - con ogni probabilità - ad importunare qualche altra ragazza. Avrebbe potuto occuparsi di lui in un altro momento. Con uno sbuffo sollevato, tirato fuori dalle labbra tinte da un rossetto nude, la bruna si rilasciò andare indietro contro lo schienale della sedia. « Scusami, non era mia intenzione essere sfacciata e disturbarti con questo teatrino mentre lavori. Non mi lasciava in pace. » Si mordicchiò il labbro inferiore pieno, apparendo imbarazzata. O nervosa, di tentare l'audace approccio successivo, con uno sconosciuto. « Posso offrirti da bere per sdebitarmi? Lo so, non dovresti in servizio, giusto? Ma magari... quando stacchi? » Lo guardò soltanto per piccole frazioni di secondi negli occhi, scappando poi a disagio verso il suo zigomo pronunciato e la mascella definita, avvolgendosi una ciocca di capelli sul dito per stemperare l'impaccio. « Mi chiamo Freya, comunque. » E tu potresti fare al caso mio, per scoprire cosa e chi si aggira in questo posto peccaminoso.


    Edited by storm witch - 24/4/2024, 11:38
     
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    La memoria era una cattiva consigliera, ché delle volte risultava talmente meschina da riportare a galla momenti che si preferiva invece tenere celati, relegati in un angolo della coscienza da cui nessuno avrebbe potuto prelevarli.
    La memoria costringeva colui che tentava di metterla da parte a rammentare immagini spiacevoli e sensazioni ormai dimenticate, e ciò accadeva per i motivi più disparati: dolore, vergogna, nostalgia. Alcuni tentavano addirittura di obliare quel qualcosa in grado di maledire ciò che si era, prova inconfutabile della colpa di cui si erano macchiati, del crimine commesso e di cui ci si sentiva responsabili.
    Zane non era quel tipo di persona. Lui non si pentiva di ciò che faceva né riusciva a provare alcuna forma di rammarico al riguardo. Si limitava a vivere e a sopravvivere, soddisfava la fame capace di divorarlo fin dal cuore della propria anima, quell'intollerabile sete di sangue che, se non soddisfatta, lo avrebbe costretto a mutare in una bestia feroce, impossibile da domare. Non desiderava arrivare a quel punto, condizione di cui suo fratello aveva fatto esperienza, causa inevitabile a far sì che una cacciatrice se ne liberasse.
    Non era intenzionato a fare del male, Uhriel. Lui desiderava sopravvivere senza mettere a rischio la vita altrui, dosando la propria sete e nutrendosi della linfa vitale degli animali, sfruttando le riserve di sangue su cui riusciva a mettere le mani... ma non bastava. Non era mai bastato. Si era trasformato, aveva terrorizzato persino me e dovetti ritenere quasi una fortuna che qualcuno mettesse fine alla sua maledetta esistenza. Tuttavia era mio fratello, sangue del mio sangue, e tutto ciò che mi era rimasto della mia famiglia.
    Quella cacciatrice l'avrebbe pagata. Non tolleravo la sua stirpe, ma non avrei toccato nessun'altra, a meno che non fosse stato necessario. Li temevo, i cacciatori, pur non riuscendo ad ammetterlo. Li evitavo, quando possibile.
    Mi domandavo spesso se seminare tracce fosse saggio, se significasse che non avevo alcuna intenzione di evitarli. Dentro di me la scintilla della vendetta diveniva via via una fiamma implacabile. Ma avevo tempo, molto tempo. L'avrei cercata, avrei atteso il momento giusto. Il suo odore a guidarmi negli angoli più remoti del mondo e il desiderio di poter far scivolare le mie mani su di lei, le dita a sfiorarne i punti più delicati e vitali come il più esperto e attento degli amanti... la prospettiva mi deliziava, le gengive pulsavano e la fame mi divorava. Ero un grande fan del detto "l'attesa aumenta il desiderio".
    Non avevo sparso dietro di me troppe vittime, ma quell'indirizzo, il nome con cui ero nato e che nessuno pronunciava più da tanto, troppo tempo, sarebbero stati la mia rovina. Volevo essere trovato, volevo porre fine a quell'esistenza dannata, ma prima avrei dovuto trovare lei, inconsapevole che qualcun altro desiderasse trovare me. D'altro canto avevo sentito dire da fonti piuttosto certe che in zona i cacciatori fossero ben pochi, motivo valido per sperare con ardore che la mia preda facesse la sua comparsa.
    «E' finito il Whisky. Vai a prenderne almeno tre bottiglie» Il "collega", un ragazzo di appena vent'anni assunto da poco, mi guardò con sguardo incerto, domandandomi dove sarebbe dovuto andare. Io lasciai il bicchiere a metà, il cliente imprecò e io lo ignorai, impegnato a rivolgere al ragazzo un'espressione irritata. «Dove vuoi che sia, sul tetto? In cantina, cretino.» Lo scacciai con un gesto della mano riprendendo ciò che stavo facendo, lasciando traboccare l'alcol dal bicchiere del cliente e scacciandolo di malo modo. La prospettiva di lavorare in quel posto non mi dispiaceva, ma nei fine settimana era troppo caotico e io perdevo la pazienza facilmente.
    Fu pochi istanti dopo che una scena piuttosto ripetitiva venne recitata di fronte ai miei occhi. Guardai il teatrino che l'uomo che avevo servito poco prima mise in atto e ridacchiai nel notare la ragazzina coprirsi: se non voleva essere notata, avrebbe dovuto selezionare meglio il proprio vestiario. Tuttavia, quando i suoi occhi si agganciarono ai miei, percepii una strana sensazione, qualcosa che mi spingeva ad allontanarmi e qualcos'altro in contrapposizione, che mi attirava a lei come fosse una calamita. Non mi lasciò il tempo di esaminare attentamente quelle sensazioni, che un brivido mi percorse arrampicandosi sulla schiena, vertebra dopo vertebra, fino a giungere a solleticarmi la nuca. Una sensazione eccitante.
    Mi baciò a fior di labbra e mi passai la lingua su di esse, assaggiandone il sapore. Ero bravo a recitare, io, e stetti al gioco.
    «Gira al largo, Carl, questa è proprietà privata.» Allungai a mia volta una mano fino ad agganciarla alla sua schiena, attirandola nuovamente a me e sfiorandole la gola con la punta del naso. Il suo odore allarmò il mio istinto, ma, se avessi potuto, lo avrei assaporato ancora.
    La lasciai andare permettendole di rimettersi a sedere, riprendendo a fare ciò in cui ero occupato un attimo prima. La sua voce mi portò a virare nuovamente lo sguardo su di lei e il sopracciglio destro si inarcò verso l'alto. «Non mi stupisce che gli uomini ti saltino addosso.» Asserii rivolgendole un sorriso sghembo. «Non mi conosci neanche e ci stai provando con me.» Distolsi lo sguardo dalla sua figura dopo averlo lasciato che solleticasse l'incavo dei seni in evidenza, corrucciando le labbra prima di mordermi il labbro inferiore.
    «Piacere, Freya. Io sono Zane.» Non allungai la mano per stringere la sua, impegnata a giocare con una ciocca di capelli bruni. Non ero certo di volerla toccare di nuovo, per il momento. «E accetto il tuo spudorato invito. Solitamente dopo il lavoro sono particolarmente incline a recitare la parte del fidanzato geloso. E scommetto che ti piacerebbe ritentare, se ti servisse.» La provocai, tentai di leggerla, ma qualunque cosa fosse quella ragazza, ne percepivo il pericolo e una dannata attrazione senza riuscire a sondarla come avrei voluto.
    Croce e delizia che, non sapevo, mi avrebbe segnato per la vita.



     
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