子供の費

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    Guardata con invidia dall'acerbo chiarore del cielo, Nana era in anticipo persino sull'indaco dell'alba, emersa come un'allucinazione dallo scoppio del fumo nero di una materializzazione veloce e cruenta, una feritoia nell'aria là dove prima non era esistita altro che quiete. Lasciava le proprie membra smarrirsi in una felpa troppo larga, nera anch'essa e ben lontana dall'eleganza che poteva dirlesi consona; si sovrapponeva a dei jeans aderenti come una seconda pelle, vita bassa e zampa larga, del medesimo colore del capo superiore e della coppia inferiore: due anfibi dalla para alta di almeno cinque centimetri che sproporzionavano alla vista i piedi attentamente mossi in avanti, un passo dopo l'altro, inesorabili nella marcia che non accennò a rallentare neppure quando due torce di un bianco accecanti la trafissero all'unisono. «Identificarsi, prego.» Philip Dawson rabbrividì ma non lo diede a vedere, appena emerso dal magiveicolo di pattuglia fuori dall'abitazione. Tra lui e Tom Hopper era di sicuro lui, Phil, il più anziano del mestiere, ma se glielo avessero chiesto avrebbe risposto che no, neppure dopo vent'anni di servizio si smette di temere l'affronto dei peggiori criminali in circolazione. Lasciava a casa moglie e tre figli ogni giorno, il poveretto, non poteva dirsi ancora particolarmente interessato alla gloria della carriera. «Deve identificarsi immediatamente, signora.» Dal canto suo Nana, occultata in volto da un cappuccio che scopriva solo due labbra incredibilmente rosse e ciuffi corvini di capelli lisci, insisteva in quel pacato avanzare quasi avesse nelle orecchie un qualche filtro selettivo che le impedisse di prestare attenzione ai richiami circostanti: era la voglia di vita, banalmente, quel folle bisogno di normalità che si faceva capriccio nell'opporsi agli ordini dell'autorità, quel rango sociale che aveva lei stessa servito con prove e testimonianze, a cui aveva venduto informazioni e impronte digitali in nome di una causa più grande, ma al quale nessuno comunque l'aveva addestrata a obbedire. Nana non era fatta per obbedire. La volontà di raggiungere la persona più importante della sua vita minacciò dunque di accecarla, spingendola oltre il parapetto del rischio verso un'incolumità che era garanzia della tutela dell'uomo; talora gli agenti avessero osato attaccarla e respingerla, d'altronde, avrebbe significato solo che svolgevano in maniera eccelsa il loro lavoro. Avanzava ancora, Narumi, la testa bassa e le mani nascoste nell'unica tasca frontale della felpa, stretta in un groviglio di dita che resisteva al freddo e digeriva adrenalina. Il tessuto dell'indumento bastava appena a filtrare l'intensità penetrante dei fari addosso, ma la tensione palpabile degli auror iniziava ad ingoiarla come nebbia, culminando nell'ennesimo ammonimento tuonato da una voce che non avrebbe ripetuto avvertimenti. «Non un altro passo!» E non un altro passo compì Nana, fuscello immobile su un vialetto ghiaiato che tornò adesso improvvisamente statico, spoglio di scricchiolii e ingombrante solo della condensa esalata dai respiri pesanti dei due uomini, le mani già impegnate nelle fondine delle bacchette che non avrebbero esitato a sfoderare.
    «Sono io.» Aleggiò la voce prima dello sguardo, un'unica occhiata strisciata da sotto il cappuccio quando la testa si sollevò abbastanza da rivelare l'identità occultata. Era nota, Narumi Yamazaki, a chi nel settore si occupava di ripulire gli angoli più polverosi della criminalità internazionale, nota per condividere la metà del corredo cromosomico con un mafioso di larga portata, e nota per aver scelto di sedere sul fronte opposto della guerra rispetto proprio a quello stesso genitore, che per lei tale non era mai stato. Ancora immobile a sopportare il fruscio docile del venticello mattutino, agganciò gli occhi affusolati a quelli caucasici di Dawson, mentre questo allentava la tensione muscolare per condursi alla bocca una forma incantata di altoparlante. «Ritirarsi, è la figlia della matricola cinque sette due.» Attese ancora, indossando passivamente l'abito della figlia di nonostante le calzasse malissimo addosso. «Codice zero nove nove annullato. Ben trovata, Signorina Yamazaki.» Le si liberò la strada davanti agli occhi, scattò la serratura d'ingresso e cedettero gli incantesimi difensivi incaricati di respingere potenziali intrusi. Quando riprese il passo, Nana riprese anche a respirare. Accolta nel tepore di una casa assiduamente vissuta, scoprì presente nell'ampio salone l'ennesimo sorvegliante ufficialmente incaricato, segno che Goro dovesse essere ancora avvinto dal sonno nella camera da letto. «Può attendere in salotto, ci vorrà qualche minuto.» L'avrebbero annunciata, l'avrebbero schedata per l'ennesima volta, impugnando ancora e più di sempre le redini di un destino che sarebbe dovuto appartenere unicamente a lei. Inammissibile. «Ho già atteso abbastanza.» Lo disse col sorriso in volto, quello tenue e serafico di chi ha fatto pace con i demoni nella propria testa, lasciando che sulla lingua le scivolasse un inglese perfetto su note tiepide di una sorgente riscaldata al sole. Mosse i passi verso quella che indovinò essere la zona notte, unica porta chiusa visibile, con la sfrontatezza di un fachiro che si addentra in un muro di fuoco. «Aspetti! Non dovrebbe...!» Stavolta non si sarebbe fermata, adesso non temeva attacchi, dimenticando piuttosto alle proprie spalle tutta l'artificialità di quel focolare domestico Nana si ritagliò il tempo di ambientarsi nella penombra della camera, l'attenzione di ascoltare il respiro regolare dell'uomo e la premura nell'appropriarsi della rilassatezza del suo corpo a riposo.
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    Sentì lo sguardo ammorbidire gli spigoli, abbandonare il perenne cruccio della severità, e concedersi un barlume di tenerezza che nessuno avrebbe osservato, proprio mentre dalla tasca munita di incantesimo estensore tirava fuori ciò che con estrema cura aveva portato con sé: una vaschetta di gelato al limone, una candelina da accendere con un colpo di bacchetta, e tre piccoli palloncini a forma di carpa da imbrigliarsi tra le dita della mano libera. Forse lo sfrigolio dello stoppino sarebbe bastato ad infrangere il banco di silenzio per riportare Goro a uno stato di veglia, e se così non fosse stato ci sarebbe piuttosto riuscito il movimento percepibile direttamente sul letto, là dove le ginocchia della ragazza sarebbero affondate per permetterle di farsi più vicina, le natiche a sedere sui talloni e il profilo ceruleo del volto stranamente ambrato dalla luce della candela. «Shiawasena Kodomo No Hi.» Era il cinque maggio, il Giorno dei Bambini, la festività nazionale giapponese durante la quale ogni genitore celebra l'affetto e la buona salute dei propri figli. Hiro e Fujiko discendevano dai lombi di Goro, la terza carpa del trio di palloncini condivideva con lui più anima che sangue, ma si riconosceva con legittimità assoluta nello stesso ruolo degli altri due. Non aveva mai avuto bisogno di dirglielo, ma sapeva che entrambi lo avevano sempre sentito. «...Mi sei mancato.» Avrebbe sussurrato una volta ottenuta la sua attenzione, fosse anche stata ancora ovattata e nebulosa di sonno, crogiolandosi in un'intimità ombrosa che tutelava tutte le fragilità di un rapporto rinnegato dal sole ma sempre ben custodito dalla maternità delle ombre.


    Edited by Sucker Punch; - 24/4/2024, 13:16
     
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    « Io non ci entro lì dentro, mi fa paura. L'hai letto il suo fascicolo? » « Andiamo Mason, non fare il cagasotto. Siamo una squadra di dieci persone, pensi davvero avrebbe qualche possibilità, uno contro dieci? » « Allora perchè non ci vai tu? » « Perchè io ho moglie e figli. » « ..Bastardo. » « ..Ragazzi, linguaggio. Mason, forza, è il tuo turno, oggi. E' innocuo, non ti preoccupare. » E' innocuo, non ti preoccupare, si ripetè mentalmente il ragazzo. Uno chiamato Pandemonio mi sa proprio di personcina carina ed innocua. Sìsì. Sapete che c'è? Andatevene tutti un po' a farvi f- « -ottere. » La voce pacata dell'uomo lo accolse nel silenzio di una camera poco illuminata. L'arredamento era semplice, nulla di più che qualche mobile utile, come un comodino di fianco al letto ed una libreria adiacente al muro. Mason rimase sulla porta. « Non dovresti dirle le parolacce, Mason, sei in servizio. Ed è il tuo primo incarico, sbaglio? » Non sembrava così pericoloso, Yamazaki, a vederlo da vicino. Se ne stava seduto sul letto, un libro aperto davanti - riposto sul materasso. I capelli erano lunghi, sciolti sulle spalle. Indossava una t-shirt grigia e dei pantaloni di tuta neri. Sembrava annoiato, forse triste, sul quel volto segnato dall'apatia. Ma -comunque- Mason rimase sulla porta. « Hai passato la selezione Auror a pieni voti, e la tua mamma è stata così contenta che ti ha preparato una torta al cioccolato. Con le fragole - come piace a te. E' stato davvero bello, quel giorno, perchè con la depressione che l'ha colta dopo la morte di tuo padre, non si alzava dal letto da un po'. » Goro sospirò. « Come fa a.. - » « La tua mente, Mason, dovresti tenerla un po' meno disponibile - » Poteva avere al massimo venti o ventuno anni, quel ragazzetto, esattamente la stessa età di Hiro, suo figlio.
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    « - Un consiglio da amico. Allora, cosa mi avete portato oggi? Carne in scatola e purè di patate? » Come ieri. E l'altro ieri ancora. Mason tossicchiò, imbarazzato, il vassoio ancora stretto tra le dita tremanti. « Tranquillo, non è colpa tua. Puoi mangiare con me, se vuoi - ma non te lo raccomando. Le patate sono insipide, e la carne è cotta male. Però vieni, siediti, non avere paura. Fammi compagnia. » « Ahm.. » Esitò, quella giovane mente incerta, ma Goro insistette, con una mano che continuava a fargli cenno di sedersi sul materasso, di fianco a lui. In fondo, valutò, cosa mai sarebbe potuto succedergli? Smith era un grandissimo stronzo, è vero, ma aveva detto giusto: erano in dieci, contro uno. Gli sarebbe bastato lanciare un urlo, e l'avrebbero soccorso, neutralizzando la minaccia. Lanciò un'occhiata in direzione dell'uomo, e del sorriso soddisfatto che gli avrebbe piegato le labbra sottili in una smorfia che aveva del sinistro, ancor prima che lui -effettivamente- muovesse qualche passo in sua direzione, parve non accorgersene. « Raccontami un po' di te, Mason. Ti va? » Col vassoio riposto sulle gambe piegate, Goro prese a tagliare la carne. I coltelli fornitigli non erano affilati, e persino le forchette avevan la punta smussata. Mason si mordicchiò l'interno della guancia. « Beh.. - » E' il tuo primo incarico. « E' il mio primo incarico. » Hai passato l'esame soltanto un mese fa. « Ho passato l'esame circa un mese fa. E.. - » Sei un po' spaventato, ma questo non me lo dirai. « Non mi trovo così male. » « Mhmh. » « Mio padre.. - » Era un auror. « Era un auror. Billie Mason. » Uno dei più illustri. « Ne ha vinte tante, di medaglie. Ed io.. - » Non vuoi deluderlo. « Non voglio esser da meno. Ma.. - » Goro si arrestò, riadagiando le posate sul vassoio. Mason esitò, poi scosse la testa. « E' triste, non è così? » « Cosa? » « Esser trattato come l'ultima delle matricole da dei colleghi che di buono, a differenza tua e di tuo padre, hanno solo ed esclusivamente l'anzianità di un posto ottenuto chissà come. » Il ragazzo deglutì, Goro assottigliò lo sguardo. « Smith è il peggiore di tutti. Temo sia così velenoso perchè sospetta che sua moglie lo tradisca ad ogni notturno. Philip non è male, è il più anziano qui dentro, ma chiude sempre un occhio sul fatto che la moglie di Smith la veda spesso sgattaiolare via dall'ufficio di Hopper. » Mason ascoltava, in religioso silenzio, mentre tutte quelle scomode verità si palesavan sacrileghe, sotto i suoi occhi ancora inesperti dinnanzi ad un mondo assai più grande e crudele di lui. Goro gli avrebbe sorriso, cordiale. Gentile. « Ma scommetto fossero pettegolezzi che conoscevi già, questi. » E invece no, so bene che non è così. « E che hai scelto sapientemente di non utilizzare a tuo vantaggio perchè sei un uomo giusto, come tuo padre. » E anche qui, so bene che non è così. Non lo fai per cattiveria, e questo ti rende onore. Ma la tua mente, Mason, lo ripeto: è troppo disponibile. Non a caso.. - « Quante altre cose sa, Signor Yamazaki? » - Mi chiederai se sono a conoscenza di altre verità. « Torna domani, Mason, e parleremo di qualcos'altro, te lo prometto. Possiamo ritenerci amici? » « Ahm.. » Mason annuì. « Beh, sì. Amici. » Complici. « Amici. »

    Passava gran parte delle sue giornate dormendo o facendo finta di-, Goro. Fu per questo motivo, che quando la porta della camera da letto si aprì, era steso a letto che la giovane Narumi l'avrebbe trovato. E non si vedevan da tempo, loro due, così come il resto della sua famiglia, per tanto, quando bastò semplicemente l'intrusione di quella mente nell'asettico silenzio di quella dannata stanza, a fargli aprir gli occhi, fu un sorriso sincero ciò che si palesò sul volto del Mago. « Shiawasena Kodomo No Hi. » Il cuore gli battè forte nel petto, mentre si metteva a sedere, per una delle rare -se non nulle- volte in vita sua, preso alla sprovvista. Non era un caso, se non l'avesse sentita arrivare. Isoshi, suo fratello e padre di lei, li aveva armati bene, i suoi figli. Le loro menti, nello specifico. E quindi se sì, l'aveva avvertita, l'intrusione di quel nuovo nucleo pensante sulla scena, non gli era stato reso possibile attecchirvi. Ma comunque non ci avrebbe pensato, Goro, in quel momento, la cui contentezza di veder finalmente un volto amico tra quelle quattro spoglie mura sarebbe stata tale da renderlo -per la prima volta- vulnerabile. Era completamente diverso, Scarface, quando si trattava dei suoi legami familiari. Quando si trattava di lei. Quella figlia con cui condivideva solo una minima parte del proprio sangue, ma che non per questo aveva mai considerato meno importante. « Nana? » Bofonchiò dunque, il tono sporcato della più genuina e spontanea sorpresa. « ...Mi sei mancato. » E portava con sè una vaschetta di gelato con sopra una candelina accesa, in quel cinque Maggio di cui Goro non s'era dopotutto curato. « Watashi no akachan. » Piccola mia. « Mi sei mancata anche tu. » Le aveva scritto, in vero -segretamente- dove si trovasse, ma le aveva anche intimato di non andarlo a cercare. Sarebbe stato pericoloso. Per questo glielo avrebbe chiesto, ma solo dopo essersi sbilanciato in avanti per stringerla in un forte abbraccio. Come quando era bambina, e lui la sollevava per chiuderla e proteggerla dietro lo scudo del suo stesso corpo - laddove nessuno avrebbe mai osato anche solo sfiorarla. « Ti avevo detto di non venire. E' pericoloso. » Nello scostarsi, le avrebbe lasciato un bacio sulla fronte, e con le mani avrebbe carezzato le sue guance, riempendo ogni suo tocco d'affetto e dedizione. Calando lo sguardo dunque sul dono che -ancora- lei teneva tra le dita, disse. « E' per me? » Un sorriso illuminò quel volto sfigurato. « Come stai, Chīsai Doragon? » Piccolo Drago. Il modo in cui l'aveva spesso chiamata, tanti -ormai troppi- anni fa.
     
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    Pareva non esser mai stato addormentato, Goro, ora che smuoveva la solidità del proprio corpo per destarsi da coperte che forse non avevano custodito di recente alcun sonno. Nana ne osservò la fluidità come fosse un parto della natura, il risveglio primaverile di una magnificenza fisica che era per lei quiete e sollievo, riposo e conforto. Era casa. Le sciovlò nel cuore come miele caldo, quel senso di appartenenza, restituì ossigeno alle cellule anchilosate e la fece rabbrividire in un sospiro sommesso che strizzava l'occhio alla compostezza sociale alla quale era stata addestrata. Paziente, attese d'essere messa a fuoco dagli unici occhi al mondo da cui s'era sempre lasciata guardare l'anima, quindi capitolò nella stretta delle sue braccia facendosi piccola come lo era stata da bambina, quando fragilità e debolezze erano state per lei la peggiore delle condanne. Respirò il suo profumo, sfregò appena il naso nell'incavo della sua spalla, e quando sentì d'essersi rigenerata a sufficienza per tornare a sopravvivere gli rivolse un cipiglio goffamente indispettito. «Sono stata prudente, lo sono sempre.» Questo non rendeva meno pericoloso ogni loro incontro, però, né garativa la possibilità di poterne ripetere un altro nel futuro immediatamente più prossimo; gli specchi gemelli li aiutavano a non perdersi, e le feritoie psichiche attraverso cui la giovane lasciava entrare lo zio quand'era necessario costituivano sempre una certezza, ma con gli uomini di Satoru alle calcagna non potevano permettersi passi falsi. «Mhm.» Annuì alla volta dei piccoli presenti portati con sé, pur riconoscendoli adesso forse troppo infantili, soppresse però ogni impaccio e si trascinò verso la spalliera del letto, sedendo sui talloni mentre le dita affusolate si impegnavano ad annodare i tre palloncini sulla sponda, là dove avrebbero vegliato su di lui finché l'elio al loro interno non avesse ceduto all'ossigeno. Chīsai Doragon, ascoltò con un tuffo al cuore, tornata ad essere incredibilmente umana come non si concedeva più dinnanzi al mondo intero; come stava, certo, era argomento più spinoso di quanto fosse piacevole pensare. Le reminiscenze del volto spaccato dalle percosse comprate erano ancora vivide in lei, così come il terrore di essere strangolata dal maggiore o banalmente non creduta: le variabili in quel viaggio della speranza erano state così tante da averle lasciato addosso il sapore dolceamaro del trauma, quella consapevolezza d'essere sopravvissuta ad un prezzo forse troppo alto. «Meglio di quanto immagini.» Mentì più a se stessa che a lui, scegliendo parole rassicuranti che tuttavia non offuscarono la sincerità degli occhi neri; i fantasmi ne riempivano le iridi mostrandosi facilmente a chi potesse riconoscerli, ma era fatto reale che Narumi se la stesse cavando meglio di quanto ci si potesse aspettare dalla figlia traditrice di uno degli squali più grossi della criminalità giapponese. Conclusa l'opera sulle carpe fluttuanti, si prese il tempo di tornare al fianco di Goro per tirarsi le ginocchia al petto cosicché esistesse un concreto contatto tra i due corpi, istintivamente incapace di rinunciare a quella vicinanza quasi sentisse il bisogno di riempirsene per meglio sopportare i tempi in cui sarebbe mancata. Gli permise quindi di fare quel che preferiva con la candelina, fiammella che si sarebbe spenta in un caso o nell'altro per non rubare spazio ad argomenti più ingombranti. «Ho incontrato mio fratello.» Fissava le sfere di latte e zucchero cristallizzato con aria assorta, seriosa e concentrata, desistendo dall'intento di armarsi di uno dei due cucchiai agganciati alla vaschetta solo perché paralizzata in pensieri scomodi. «Ha tentato di entrare, diventa sempre più forte e il risentimento che lo impregna gli permette di abbattere le barriere con crudeltà sempre maggiore.» Non serviva specificare la natura di quell'invasione, Satoru era ancora all'inizio della scalata al potere che Goro maneggiava invece da tutta la vita, ma la resistenza di una gemma di disperazione come poteva riconoscersi Narumi rendeva quell'ascesa meno scontata del prevedibile. Sollevò gli occhi nei suoi per proferire le parole seguenti, quasi a volersi appagare della loro gloria. «...Ha fallito.» Anni interi trascorsi a costruirsi fortificazioni tra le tempie, d'altronde, l'avevano portata ad essere il perfetto Cavallo di Troia in una guerra fredda fatta di colpi sleali e pochi attacchi diretti; suo fratello avrebbe fallito altre mille volte, e quando un giorno fosse finalmente stato ammesso nella Rocca dei pensieri della minore, sarebbe brutalmente annegato nella consapevolezza di una sottovalutazione che gli sarebbe stata fatale. «È scettico, diffidente... oltre a tutto il resto.» Scosse piano il capo, accennando un sorriso sul lato delle labbra che era sinistramente intriso di acredine, quindi accettò finalmente di impugnare la posata che le permettesse di condursi alle labbra un piccolo boccone di fresco ristoro. «Ma conto di ottenere la sua completa fiducia entro le prossime due settimane.» Lo osservava come d'abitudine, riempiendosi gli occhi dei suoi lineamenti e riconoscendo tutti quei dettagli che lo rendevano diametralmente opposto ad Isoshi pur rassomigliandogli alquanto; ridisegnò la curvatura severa dei suoi zigomi e scolpì la linea virile del naso, fino a rintracciare familiarità su quella cicatrice oscena solo per l'ignoranza sociale. Trasognata, si domandò in silenzio perché il cielo non avesse pensato che meritasse anche lei la sua biologia di padre. «Ti procurano tutto ciò di cui hai bisogno?» Quasi quel pensiero l'avesse colta all'improvviso, aggrottò la fronte di porcellana sporgendo di più la testa dal collo, solo un'occhiata fugace alla porta oltre cui aveva lasciato un esercito di guardiani. «Non ti stanno troppo addosso?» Nessuno meglio di lei avrebbe potuto comprenderlo, nessuno che come lei non indossasse ogni giorno maschere necessarie a conquistarsi l'alba del giorno successivo. Sarebbe cambiata quella vita, prima o poi?
     
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