Aveva solo un vago ricordo, Felix, delle cene di famiglia che avevano come anfitrione nonno Chang. Ciò che era rimasto impigliato erano sensazioni, più che veri e propri spaccati di memoria: l’odore delle fritture e il palato riempito di quelle pietanze unte tanto diverse dai sapori penetranti che pretendeva in casa sua madre, i silenzi della donna incapace di comprendere il dialetto aspirato della famiglia del marito o le ciarle tanto britanniche dei figli, il suo fianco sinistro perennemente occupato dal profumo floreale della signora Chang. E poi ancora, il clima teso degli ultimi periodi, le discussioni fra suo padre e suo nonno, l’alienazione sempre più totalizzante di sua madre. In generale, facendo un bilancio del passato, Felix poteva affermare senza troppi dubbi che le cene a casa di nonno Chang fossero ricordi assolutamente negativi, senza alcuno spiraglio di luce. Decidere di sottoporsi nuovamente a quelle che per anni aveva pensato come torture inflitte da due genitori troppo masochisti per crescere con serenità i propri figli era stata una tappa obbligatoria, un po’ per tentare di elaborare un lutto irrisolto e un po’ per riallacciare un rapporto che gli avrebbe assicurato benessere e spalle coperte. In passato era sempre stato compito di Aurelian, quello inerente alla rappresentanza, autoproclamatosi come maggiore di quel binomio che aveva visto quasi contemporaneamente la luce. Felix era sempre stato felice di delegare le responsabilità ai gemelli, e che Aurelian fosse pronto ad assumersele in toto gli era sempre sembrata una scelta masochista più che egoista. Aveva cominciato a comprendere il potere dell’autodeterminazione solo quando erano sorte aspettative nei suoi confronti e il maggiore aveva preteso di fare ciò che aveva sempre fatto: decidere, tentando di trovare la soluzione migliore per i fratelli, ma conscio che lasciare a loro un margine di discrezionalità avrebbe voluto dire vanificare ogni lavoro. Il sopraggiungere della maggiore età aveva significato per Felix una presa di coscienza tutta nuova: la consapevolezza che vi erano cose che nemmeno Aurelian, pacato e razionale, sarebbe riuscito a fare meglio di lui. Incastrato fra i gemelli e la sorella minore, il Chang mezzano era sempre vissuto in un limbo, invisibile, capace di ricoprire il ruolo di padre per una sorella con cui aveva condiviso ogni tappa della vita, ma privo di quella complicità che nell’infanzia aveva legato due anime che, se non avrebbero potuto dirsi affine, si erano spesso rivelate complementari. Riuscire a ottenere nuovamente un invito a una delle cene di nonno Chang era stato necessario, per il suo stesso bene, per quello di Cornelia, perfino per quello dei gemelli.
«Parlano tanto, 瑞俊.» con gli occhi fissi sulla propria ciotola di riso, Felix annuì, le mani posate sulla superficie di legno del tavolo e addosso lo sguardo di entrambi i nonni paterni.
Quelle cene erano sempre più lunghe d quanto potesse preventivare, e pure quel dettaglio non sembrava essere tanto diverso dall’infanzia. Le condizioni per sedere a quella tavola imbandita erano poche, e tuttavia particolarmente stringenti, se applicate a uno come Felix: niente
droghe. Non se ne parlava, non se ne assumevano, e se nonno Chang avesse reputato le pupille del nipote troppo dilatate o piccole come spilli non avrebbe esitato a farlo scortare fuori dalla villa londinese in cui aveva imparato a recarsi settimanalmente, il venerdì sera, giorno che nonno Chang aveva reputato come quello che meglio si conciliava con gli impegni scolastici del ragazzo.
«Sto smettendo, 爺爺. Non è una cosa che posso fare dall’oggi al domani.» e, in parte, non si trattava di una bugia: sopportava l’astinenza del mercoledì e del giovedì per arrivare praticamente
pulito a quelle cene, e l’unica cosa che si concedeva prima di entrare nel maniero erano una pillola per calmare tremori e sudorazione e qualche goccia di uno sciroppo che manteneva l’umore stabile, leggermente più fiacco del dovuto, ma indispensabile per sopperire agli sbalzi che provocava l’alternanza di oppiacei e stimolanti. Certo era che le ricadute erano
inevitabili, soprattutto durante il week-end o quando il nonno lo avvisava prontamente di un impegno inderogabile per il venerdì successivo.
«E invece dovresti provare a farlo.» il capo rimase chinato; i capelli neri come inchiostro – segno tangibile di quanto, invero, Felix stesse effettivamente
tentando di ripulirsi - lambirono la fronte, mentre la mano destra raggiunse il collo della camicia allargandolo appena, nel tentativo di prendere aria.
«Posso provarci.» celò l’implicito sarcasmo, mascherando le sue parole in modo che sembrasse solamente una tiepida dimostrazione d’accordo col più anziano. Lo guardò negli occhi senza vederlo sul serio, ché se l’avesse fatto ciò che avrebbe dimostrato sarebbe stato solamente uno sguardo di sfida.
Controllò distrattamente l’orologio, incapace di stupirsi per la lancetta delle ore già ampiamente oltre il dodici.
«Dovrei andare. Domani ho delle lezioni da recuperare.» aspettò che si alzassero gli avi, per imitarli, rifiutando con cordialità il sigaro offerto e il dito di whiskey già versato nel bicchiere.
«Non vorrei che mi agitasse il sonno.» fu la sintetica scusa che offrì, recuperando dalle mani del maggiordomo il proprio soprabito e inchinandosi in direzione dei nonni per salutarli.
Togliere le ciabatte per infilare le scarpe abbandonate all’ingresso fu il momento più sereno della serata, seguito solamente dalla sfilata che le sue spalle offrirono agli occhi del nonno mentre scivolava lungo il giardino in stile orientale, le mani infilate nelle tasche del cappotto e il mento ancora vicino alla gola come non mai.
Distante dai cancelli, dove avrebbe potuto smaterializzarsi in Scozia, decise invece di incamminarsi verso il centro più vivace della capitale, incastrandosi fra i vicoli di Camden Town per potersi mescolare fra i babbani. Fu solo quando raggiunse la facciata di un pub particolarmente lercio, animato da una cover band evidentemente dilettante e già alticcia per un pubblico pagante che si agitava sulle note irrequiete di un punk molto pop e poco melodico, che si concesse una sigaretta, lottando contro l’inquinamento visivo per riuscire a trovare la cintura di Orione.
Non aspettò di raggiungere il filtro per gettare il mozzicone a terra, lesto a infilarsi nella porta girevole approfittando dell’uscita di una coppia eccezionalmente affiatata e smaniosa di proseguire la propria serata altrove. Si liberò ben presto del soprabito, abbandonandolo su una sedia prima di ordinare al bancone una guinness da portarsi al tavolo, felice di tornare finalmente ad essere semplice ombra mentre sorseggiava la birra.
Fu con distrazione che si accorse della presenza di una figura conosciuta fra la folla. Ne seguì i movimenti con lo sguardo per un istante, prima di alzare il braccio e chiamare il suo nome per richiamare la sua attenzione.
«Da sola, Shannon?» non si sarebbe spostato dalla sua seduta, limitandosi ad appoggiare il braccio allo schienale della sedia accanto alla propria e a sistemarsi sulla seduta per sentirsi più comodo, la gamba sinistra allungata sotto al tavolo e la caviglia della destra stretta dalla mano opposta, disordinatamente appoggiata all’altra coscia.
«Se ti offro una birra posso rubarti per la serata?» ché riempire il resto della notte anche solo con la presenza di un altro essere umano al proprio fianco su cui concentrare la propria attenzione sarebbe stato l’unico epilogo che avrebbe potuto accettare per una serata tanto disastrosa.