shaking the wings of their terrible youths

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    Il fatto che in ufficio non si parlasse di altro che non fosse il caso Abercrombie dava la misura di quanti uomini lavorassero presso il Quartier Generale Auror. Era quella per Mia l’unica spiegazione possibile alla passione diffusa per una questione tanto futile, ché solo un branco di maschi ossessionati dal quidditch avrebbe reputato quel caso tanto rilevante. Aveva accolto tiepidamente gli articoli scandalistici della Gazzetta, incapace di comprendere quanta rilevanza potessero avere delle semplici scommesse quando nel paese infuriavano reati ben più gravi. «Non puoi capire, Schläger: è come se scoprissero che i tuoi trucchi preferiti fanno venire il vaiolo di drago.» gli aveva detto il suo vicino di scrivania per tentare di farle capire la portata dello scandalo del caso Abercrombie, senza tenere in considerazione che: 1. Mia non usava un correttore da almeno dieci anni e 2. durante gli anni di Durmstrang aveva giocato come cercatrice per la squadra di quidditch, ma comunque non riusciva a comprendere l’ossessione della maggior parte della popolazione maschile per lo sport in generale e per il quidditch in particolare. Era certa che la maggior parte dei suoi colleghi uomini sarebbero arrivati a pagare pur di condurre gli interrogatori, anche solo per conoscere le giovani stelle del campionato. Che fosse stata scelta proprio Mia – indifferente al lustro dei giocatori e dura nel considerarli dei fannulloni pagati fior fior di galeoni semplicemente per giocare come ragazzini – per portare avanti un lavoro simile era allo stesso tempo ironico e l’unica strada percorribile per assicurarsi che le indagini fossero portare avanti in modo imparziale. Alla domanda «Hai una squadra del cuore, Schläger?», infatti, Mia aveva inconsapevolmente risposto nell’unico modo accettabile per i suoi superiori: guardando fisso negli occhi il proprio interlocutore come se stesse dicendo un’idiozia, per limitarsi a sibilare qualche imprecazione in tedesco mentre distoglieva lo sguardo, incapace di prendere seriamente un quesito simile. A quella reazione, il suo superiore aveva reagito con un sorriso particolarmente luminoso, una pacca sulla scrivania in mogano e un fascicolo porto alla tedesca senza troppe informazioni circa il soggetto che avrebbe dovuto incontrare, certo che, per una come lei, non fosse poi così importante sapere chi avrebbe dovuto interrogare, stella in mezzo a un firmamento che Mia non aveva mai perso troppo tempo a scrutare.
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    «È il capitano dei Cannoni di Chudley. Sai, una squadra della lega inglese.» essere considerata cretina era sempre stato l’insulto peggiore che qualcuno potesse rivolgere a Mia, ma in quel caso, felice di poter trascorrere qualche ora fuori da quell’ufficio in cui, lo sapeva, avrebbe finito per far la muffa, si limitò a stringersi nelle spalle, raccogliendo il fascicolo del caso e studiando sommariamente i nomi evidenziati e considerati come nevralgici. «Sarà un colloquio informale; non è formalmente un sospettato, ma nella sua squadra sembra che almeno un paio di giocatori siano particolarmente vicini ad Abercrombie. Gli arbitri poi sono sempre stati molto leggeri con i Cannoni, quest’anno, ma potrebbe essere solamente un caso.» che, a detta di Mia, erano condizioni già piuttosto eloquenti sul sospettare apertamente pure di lui, ma aveva compreso da tempo quanto i suoi, di parametri, fossero considerati anche troppo stringenti per i colleghi inglesi. «Un caso, certo.» il tono, a quel punto, fu apertamente sarcastico, mentre infilata il fascicolo nella borsa e aspettava di essere congedata. «Domani mattina al Paiolo. Colloquio informale. Capitano dei Cannoni di Chudley, squadra della lega inglese.» ripeté senza entusiasmo le informazioni più importanti, alzandosi in piedi e affrettandosi a uscire dall’ufficio per imboccare la via che l’avrebbe condotta alla sua triste scrivania, dove ad attenderla ci sarebbe stato il vecchio thermos scassato ritrovato quasi per caso in un vecchio mercatino di merce babbana usata poco distante dal suo appartamento di Diagon Alley.
    Poco importava che l’appuntamento fosse fissato per la tarda mattinata: Mia aveva sfruttato le stesse – poche – ore di sonno del solito, riempiendosi lo stomaco di caffè amaro e i polmoni di fumo prima che la lancetta più corta dell’orologio raggiungesse la sesta tacca del quadrante. Si era preoccupata che nella borsa fossero presenti il fascicolo e un paio di pacchetti di sigaretti e, inspiegabilmente, si era mossa di casa in ritardo. Aveva affrettato il passo lungo la strada, cercando di macinare minuti per raggiungere il prima possibile il locale. Quando aveva varcato la soglia e lo sguardo era caduto sul vecchio orologio troppo grande per il suo polso sottile il respiro era affannoso, ma il ritardo ridimensionato di appena un paio di minuti. Gli occhi verdastri avevano sorvolato i tavoli, consapevole che avrebbe dovuto cercare il suo uomo negli angoli più remoti della stanza. Non aveva faticato a riconoscerne la figura, nascosta dall’ombra di una colonna e condita con spalle troppo larghe per passare davvero inosservata. Non aveva tardato ad avvicinarsi, spogliandosi del cappotto, che avrebbe abbandonato sulla sedia se solo non si fosse attardata a scrutare il viso tremendamente conosciuto del ragazzo difronte a sé. «Samuel Scamander il suo nome riemerse per caso nella memoria di Mia, accompagnato dal ricordo degli scontri sul campo e da un invito che all’epoca si era categoricamente rifiutata di accettare, lui un ragazzetto e lei non ancora totalmente uscita dall’infanzia, ma fisicamente proiettata già nell’età adulta, fiorita dopo anni passati a vergognarsi delle orecchie troppo a sventola, delle lentiggini troppo insistenti sul ponte del naso e del diastema che le segnava il sorriso. «Il capitano dei Cannoni di Chudley?» fu con una punta d’ironia che chiese conferma della sua identità, prendendo posto e incrociando le braccia sotto il seno. «Ti piaceva tanto il quidditch anche all’epoca, in effetti.» e Mia era certa di ricordare quel dettaglio solo perché all’epoca anche a lei, piaceva molto il quidditch. Che fosse stato solamente per poter finalmente prendere il volo e decidere da sola la strada da percorrere oppure il brivido di riuscire ad afferrare il boccino, mettendo un punto a una partita da sola, senza l’aiuto di nessuno, quello era poco importante, anche e soprattutto perché la passione era scemata nel momento in cui altro aveva attratto la sua attenzione, soddisfacendola molto più di quanto avrebbe potuto fare una scopa volante. «Posso portarvi qualcosa?» la voce del cameriere la distolse solo per un istante, abbastanza da concedere uno sguardo veloce ai suoi capelli unti e agli incisivi che uscivano dalle labbra. «Un caffè», ossia l’unico ordine che avesse mai fatto al Paiolo Magico, con una perseveranza degna dello studioso più appassionato o dello sportivo più integerrimo. «Che pagherai tu. Ho sentito dire che i giocatori di quidditch hanno una paga più che dignitosa.» gliel’avrebbe detto solo dopo essersi assicurata che il cameriere fosse abbastanza distante, riportando con pigrizia lo sguardo verde sul viso del ragazzo. «Sai per quale motivo devo parlarti, vero?» glielo chiese alzando il mento e allungando le gambe sotto il tavolo, desiderosa di finire quel colloquio il prima possibile.

     
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